UN ARCHITETTO SARDO E UN GRANDE INTELLETTUALE: MERITATO RICONOSCIMENTO A VICO MOSSA AL POLITECNICO DI MILANO

di SERGIO PORTAS

Il Politecnico di Milano è una delle grandi istituzioni che hanno fatto grande questa città: “el noster Politeknik”, diceva di lui affettuosamente un suo alunno poi addottoratosi in ingegneria e che sarebbe diventato il più grande scrittore italiano ( dico io) del ‘900: Carlo Emilio Gadda. Se all’ AUIC (Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni) di via Ampere mettono su una mostra seguita da una tavola rotonda/dibattito con presentazione di un volume, sicuro che il protagonista è personaggio notevole. E Vico Mossa (dal nome del nonno Ludovico), nato in quel di Serramanna nel 1914, lo è davvero. Complice Roberto Podda, che nel 2005 si laurea al Politecnico in Architettura e dopo varie esperienze nazionali e internazionali ne diventa professore in Progettazione Architettonica e Urbana e che coinvolge nel suo “innamoramento” sia le autorità accademiche: Marco Biraghi, professore di Storia dell’architettura contemporanea, sia Giovanni Cervo presidente del Centro Sociale Culturale Sardo di Milano (qui gli è stato più facile perché fa parte del “direttivo”). Il comune di Serramanna (è presente l’assessore alla cultura Guido Calcangiu) a cui è stato donato dagli eredi l’Archivio Mossa nell’agosto del 2014, non può che seguire entusiasta, sempre più cosciente com’è di quale tesoro d’attrazione sia e sempre più sarà l’Archivio in questione, per ogni tipo di visitatore, “in primis” ogni sardo che sia curioso della storia “minore” dell’isola che gli ha dato i natali. Quella storia che Mossa si premurò di narrare anche in un suo libro, lui già affermato architetto e professore all’Università di Sassari che finora aveva scritto di architettura sin dal ’46: “Novecento, stile sardo e così via: problemi di architettura in Sardegna”, finendo nel ’94 con “Vicende dell’architettura in Sardegna” (C. Delfino ed.), e in mezzo una quindicina di libri che spaziano dall’architettura religiosa minore a temi d’arte e d’ambiente, nel 1965 se ne esce coi “I Cabilli” (Cagliari, La Zattera, ora ristampato da ILISSO). “Cosa vuoi che interessi alla gente della storia della tua famiglia” gli aveva detto la moglie Clara, che era stata insegnante di lettere e veniva da una famiglia agiata di Sassari, i suoi erano magistrati. Invece il libro è bellissimo, e chi ha avuto sorte di venire alla vita  nel Campidano di Cagliari ha il privilegio di rispecchiarsi nella vita ordinaria del paese dei suoi nonni, vista dagli occhi di un bimbo curioso di tutto, che ebbe la fortuna di nascere in una famiglia agiata e, ancora più fortunato, nell’aver avuto a madre uno di quei temuti “cabilli” che venivano dal Capo di Sopra, dalla “lontanissima” Narbolia, allora poco più che 1500 abitanti ai piedi del Monteferru, due passi dalle splendide spiagge del Sinis. In confronto Serramanna (Pendiogrande nel libro) è un paesone, laborioso e felice, scrive Mossa: “…festaiolo e un po’ millantatore, ma allo stesso tempo dominato da un’inspiegabile paura, come un incubo atavico: paura per eventi che non accadevano mai, torti da parte di fantomatici “cabilli”, isolani o forestieri in genere, di gente lontana, immaginaria; paura altresì di gente vicinissima, di cui quella brava gente ( i paesani ndr.) onesta e ossequiosa dell’ordine costituito, non aveva niente da temere: paura del sindaco da essi stessi eletto, della guardia comunale, perennemente inoperosa, seduta in una delle panchine di piazza, dei barricelli  e dei carabinieri annoiati, dell’agente delle tasse…paura, insomma, dell’autorità, anche se impersonata dal banditore o dal becchino.” (pag.46). “Ridevano i miei zii di questa buffa qualifica, ignota alla popolazione di Narbolìa (Nuralìa nel libro), ma tutti anche qui avevano paura, ancor di più che a Serramanna, di gente forestiera, di gente “lontana”. (pag.117). Come Vico guarirà da questa paura: andando a scuola a Cagliari ( e sempre in vacanza a Narbolìa) e laureandosi a Roma, scoprendo con qualche stupore che lì è lui a essere il “cabillo” di turno, terzo sardo da sempre a conseguire una laurea in architettura ( era il 1939, la tesi sul turismo nel lago Omodeo). I nostri “cabilli” se ne vengono dal Mediterraneo mare in scassati gommoni e ci fanno un’enorme paura, del resto le nostre “autorità” ci esortano quotidianamente che essa è assolutamente giustificata ma, fortunati noi che siamo da loro governati, i nostri porti sono chiusi a chiunque tenti di sbarcane le schiere. Bimbi e donne comprese. Eppure verrà il tempo, ce lo dice Vico Mossa, che i nostri nipoti andranno a laurearsi in Mali o Mauritania, e la paura svanirà, resterà forse il sano terrore per i marziani che si respirava ancora negli anni ’50. La mostra milanese ha titolo: “ IO RIDO PERCHE’ HO PAURA”, Vico Mossa, architettura sarda tra ruralità e modernità. Sono oltre 200 tra tavole di progetto, disegni, modelli, fotografie, lettere, articoli, libri ecc., per la maggior parte inediti, realizzati tra il 1935 e il 1990. Paola Gambero, giovanissima neolaureata, racconta della difficoltà che ha incontrato per selezionare il materiale qui presente da un archivio gigantesco, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla possibilità di trovare in tempo un tavolo luminoso per poter vedere i negativi, eppure ce l’ha fatta. Enrico Pusceddu, sindaco di Samassi, è qui in quanto presidente dell’associazione “Terra Cruda”, le casi in ladìri, i mattoni di fango impastati con la paglia, sono ancora numerose in Campidano, il 40% della popolazione mondiale, dice lui, vive in case di terra. Quasi tutti, dico io, i “cabilli” centro-africani che sbarcano dai gommoni. A Cagliari c’è una Cattedra UNESCO sulla terra cruda, e in terra cruda erano i paesi della Sardegna sino al primo dopoguerra, c’è un enorme interesse nel mondo per questo modo di costruire abitazioni che “respirano”, fresche d’estate, facili a riscaldare d’inverno, con materiali che più ecologici non si può. Tocca poi a Giangiuliano Mossa, figlio di Vico e anche lui architetto, raccontarci della sua famiglia, di questo suo babbo speciale: “ Ha sempre letto moltissimo, con metodo, sia di storia sia di architettura, e i romanzi quando si coricava per dormire. Benché avesse avuto un’automobile fin dagli anni ’50 ( un’”Appia” con targa a 4 cifre) non gli è mai piaciuto guidare da solo. Io e mamma eravamo i suoi accompagnatori preferiti. Ognuno di noi munito di macchina fotografica, ognuno scattava le sue foto che poi non scambiava con gli altri. Quando le foto “venivano male”, si rifaceva la gita. I soggiorni estivi rigorosamente in Alto Adige, e da lì si ridiscendeva la penisola fermandosi in tutte le principali città d’arte. Tutto ciò fino al ’66 quando ebbe un incidente di macchina che lo costrinse ad usare un bastone, poco dopo la mia laurea. Nel ’70 aprimmo insieme uno studio professionale ma, dopo 46 anni di attività si cancellò dall’ordine degli architetti e si dedicò completamente alla scrittura e lettura. La sua salute precipitò dopo che mamma ebbe un malore e se ne andarono ambedue nel giro di un mese. Detestava il “linguaggio architettese”, l’architettura doveva essere per tutti, non solo per gli addetti ai lavori. Alceo Vado, che la laurea in pianificazione territoriale e urbanistica l’ha conseguita in un altro Politecnico, quello di Torino, porta la sua testimonianza parlando dell’amico che avrà , dice, una vita sfrontata, spavalda.

Vado fin dagli anni ’60 ha portato il tema delle architetture in “adobe” (làdiri) della Sardegna nel dibattito dei movimenti di formazione universitaria degli anni settanta. Temi questi che con Vico Mossa ha sempre condiviso fin dal loro  primo incontro nel 1962. E che ora stanno riprendendo con una intensità che ha dell’incredibile. Da qui l’importanza degli archivi che possono dare un grande aiuto di conoscenze. Come straordinaria è la possibilità di visitare una mostra come questa. “La facoltà di architettura è sempre stata come la scuola dei maghi di Henry Potter, capace di sognare il futuro, i sardi l’hanno nel loro DNA il concetto della bioedilizia, del suolo capace di guarire, ne fanno fede le “cumbessias” e le “tombe dei giganti” dove una volta si andava a dormire per scacciare la malattia. Simili in questo alle culture arabe e indiane”. Tocca ad Alessandra Mocci spiegare cosa fa una archivista per guadagnarsi la pagnotta, il fiuto che bisogna avere nel comprendere chi ha prodotto il materiale d’archivio e le motivazioni che ci stanno sotto. Nel 2011 in un primo sopralluogo in casa di Giangiuliano trovò un numero di documenti numerosissimi ( Vico raccoglieva sino a articoli di giornale) dai quali le toccò fare una prima scrematura. “Ho scoperto un mondo, di cui mi sono innamorata, io laureata in lettere ora mi stupisco di riuscire a parlare di architettura con chiunque venga a visitarlo, c’erano tutti i suoi progetti naturalmente, ma anche sette volumi di rassegne stampe fin dal 1932. Una raccolta straordinaria che racconta di tutta la Sardegna. Un epistolario con sette cartelle di lettere, tutte in ordine cronologico ( la prima del 1932 allo zio Efisio di Nàrbolia), con 1200 relatori diversi, con Giuseppe Dessì si scusava perché coi “Cabilli” aveva “arato a fura” l’orto degli scrittori. Eppure Vico Mossa fu grande giornalista, scrittore e fotografo. Da Dessì voleva un parere spassionato, sincero, sul suo libro. Di grande interesse anche il rapporto che ebbe con Pigliaru padre e la rivista “Ichnusa” e notevole il ruolo che svolse all’interno del “Rotary”, progettando viaggi che facevano scoprire a tutti quanto magica fosse la terra di Sardegna. Un Archivio che racconta tante storie diverse, un piccolo quaderno nero dai bordi rossi segna ogni incarico che ha ricevuto, anno dopo anno, dal 1935 al 1990. E poi le mostre che hanno portato la Sardegna in giro per il mondo. Questa stessa è un successo dell’architettura sarda”. Enrico Pinna, di mestiere fotografo, dice  della collaborazione con Mossa fin dalla Triennale milanese del ’51 (Architettura spontanea in Sardegna), con Alceo Vado e i materiali in terra cruda fa testo il suo libro sulle saline di Santa Gilla. “Trovai, dice Pinna, una cassettina piena di scatole di negativi tutti attorcigliati, da cui emergevano bianchi, neri, volumi. Una fotografia moderna, una fotografia documentale, che in Italia non si era mai vista. Che indagava l’anima dei luoghi ritratti. Lui, Vico, facendo finta di parlare di architettura parlava della Sardegna, dei sardi. Nel mentre leggeva “Life”, “Epoca”, “Casa bella” che dirigeva Giuseppe Pagano con un piglio di architettura rurale a cui però sfuggiva il ruolo sociale. Mentre Mossa allargava il suo obiettivo collocandola nei fermenti dell’umano interagire. Ci sono foto con le persone, donne e bambini in paesini di pietra. Una Sardegna ritratta in fase di cambiamento (talvolta obliando le sue radici). Che da un equilibrio tra natura, vita e casa ha scelto non le vie più strane ma le autostrade, pagando un pedaggio oneroso che ora ci troviamo sulle spalle”. Vico Mossa nei “Cabilli” racconta di quei due fulmini che scoperchiarono il campanile di San Leonardo ( era giusto finita la guerra, quella “grande”) e lo sconcerto che ne seguì ( Santa Barbara e santu Jaccu/ osu potais is crais de lampu/ osu potais is crais de celu/ non toccheis fillu allenu/ ne in domu ne in su sattu),  “ il bianco grande quadrante dell’orologio “ (pag.16) vi fece ritorno solo nel 2010. Forse non è più “il più alto di tutta la Sardegna”, in compenso in paese svetta l’Archivio Vico Mossa, come un faro notturno per i viandanti sardi e non: a Serramanna dice che bisogna fare una sosta.

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2 commenti

  1. Bellissima mostra e catalogo

  2. Ero a Milano la scorsa settimana e non sapevo di questa iniziativa, mi potete dare ulteriori informazioni, fino a quando dura e il luogo, devo tornare a breve a Milano se possibile vorrei vederla, grazie

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