di MAURO PILI
Quel drammatico pomeriggio del 19 luglio di ventisette anni fa, quando le 18 non erano ancora scoccate, spettò a me il compito che nessun giornalista vorrebbe vedersi affidato: raccogliere le parole di una famiglia straziata dalla notizia che la propria figlia un’ora prima era stata appena dilaniata da una strage di mafia. Quando entro in quella umile casa di Sestu non ci sono urla strazianti che magari ti aspetti. Una compostezza silenziosa, come di chi sapeva che sarebbe potuto accadere. Si, perchè Emanuela Loi, seppur giovanissima, aveva scelto la trincea.
Palermo, guardia del corpo di Paolo Borsellino ad appena 24 anni. Li aveva preparati, tutti, dalla madre al padre, a Claudia, la sua giovane sorella. Ogni volta che tornava nella sua umile casa glielo ripeteva di continuo, fino a scolpirglielo in testa: non preoccupatevi, questo è il mio lavoro, questo è il mio dovere. Sarebbe dovuta tornare per fine mese, nel suo paese, tra la sua famiglia.
Dopo quel drammatico pomeriggio non avrebbe più visto la sua terra. La sua vita venne spazzata via in modo infame da una violenza inaudita.
Parla Claudia. Singhiozzo, nodo in gola. Riesce a dire che quella di Emanuela era una missione di vita. Vita spezzata dal tritolo di mafia. Orgogliosa del suo lavoro.
Fiera di stare con Paolo Borsellino, il giudice amico di Falcone, ucciso qualche mese prima a Capaci, entrambi bersagli numero uno della mafia. La tv nel salone di casa fa scorrere le immagini nefaste e silenziate di via d’Amelio.
Loro non le guardano. I volti sono protesi a quell’immagine surreale di Emanuela che sorride, in divisa. La guardano, la toccano. E si guardano affranti.
Tolgo il disturbo. Abbraccio la madre e Claudia. Il padre, pensionato delle Ferrovie, è seduto in un angolo.
Muto.
Sguardo proiettato come una sfinge sul pavimento. Non dice una parola. Gli hanno strappato il cuore. Poso una mano sulla sua spalla, in segno di conforto.
Mi guarda, mi dice grazie, e trafitto dal dolore ha la forza di dire: mia figlia è morta da eroe.