di PIER BRUNO COSSO
Terra Bianca” di Davide Piras (Giulio Perrone Editore 2016) (Finalista premio città di Como 2018)
“Terra bianca” inizia dopo l’ultima pagina.
Inizia dopo l’ultima pagina dentro di te, per quello che ti rimane. Perché un libro certe volte ti segna. Ti segna con un graffio profondo sulla pelle. Una ferita che non cicatrizzerà più.
Un libro certe volte segna una nuova strada. Una strada che non conoscevi. È la magia della bella lettura, che ti trascina dentro una via finora sconosciuta, che non sapevi, ma che era sempre stata lì. E adesso, che lo sai che esiste, le sue sensazioni sono anche le tue.
Il libro di Davide Piras “Terra Bianca” è tutto questo, ma anche di più.
Dovrebbe essere solo la storia di due ragazzini che diventano fratelli al tempo della grande guerra. Due in bianco e nero che fondono e confondono le loro anime in un legame indissolubile.
In bianco e nero, perché uno è orfano e l’altro è un ragazzo Down. E quello in nero non è certo il secondo… Uno è solare e l’altro ha tanti lividi. Ma lo sono alternativamente, e le vicissitudini della vita li portano a duellare su chi impara e chi insegna, alla pari.
I due, in un confronto spesso molto duro, attraversano come un treno in una corsa irrefrenabile la guerra, la morte, la povertà, la strada, la scuola, e l’età adulta che irrompe troppo presto.
Il treno si ferma in tante stazioni: ogni stazione rivive in una storia di immagini color seppia, dal sapore antico. Ogni stazione racconta la rivalsa, ma anche la rabbia e il dolore di un’epoca ben affrescata. La vita quando va un po’ male; la vita com’era.
Ci si salva? Non lo sveliamo, forse è più giusto dire che c’è una possibilità di salvezza. Una salvezza che il lettore può prendere o lasciare. Spetta a lui assolvere o condannare. E in un certo senso sta qui il respiro ampio del romanzo.
È un libro circolare, perché Davide Piras inizia dalla fine, e poi torna indietro a tappe. Ma è bravissimo a mischiare le carte perché la fine non era poi dove si pensava. Era in un vecchio profondissimo dolore che anelava la sua espiazione.
Come mesi e stagioni che passano, giri le pagine senza un attimo di stagnazione narrativa. E alla fine non ti rendi quasi conto che stai pagando il tuo prezzo di emozioni.
La struttura si sviluppa in tanti rami laterali, ma senza mai perdere il binario principale. E chi, come me scrive, sa bene che non è casuale: è una ricercatezza stilistica.
La scrittura sta sempre su una cifra molto alta, per dare colori più intensi che qualche volta ti sorprendono in una raffinata ricercatezza. Oltre questo in ogni pagina traspare un profondo, rispettoso, amore per la propria terra.
La Sardegna del resto è così, ti fa sempre prigioniero.
Quando l’autore la ama sinceramente, ti fa prigioniero. E qui troviamo la sua città natale, Terralba, in una accurata, tenera e sognante ricerca archeologica. Il “come eravamo” non è strumentale, è il fiume dentro cui ci immergiamo per seguire la storia, restandone contaminati.
Splendida recensione, tutta meritata perché questo libro ti invoglia a leggerlo Senza sosta, ma quando arrivi alla fine vorresti ricominciare