AZIENDE PICCOLE E CON SCARSA PROPENSIONE AD INVESTIRE: L’OLIO SARDO, UN’ECCELLENZA MA SOLO FUORI DALL’ISOLA

Il settore oleario italiano e, ovviamente quello sardo, si contraddistingue per una elevata frammentarietà nella parte a monte della filiera, ovvero quella olivicola, che ha una consistenza media di 1,3 ettari contro quella spagnola di 5,3. Tale media si deprime ulteriormente in Sardegna dove si arriva a 1,18 ettari per azienda. Il panorama è costellato di aziende infinitesimamente piccole, in un settore dove la dimensione fa la differenza tra l’avere capacità di fare impresa e mantenere adeguati livelli d’investimento e l’abbandono. In Sardegna sono censiti circa 37mila ettari dedicati all’olivicoltura e circa il 40% di questi è concentrato nel Nord dell’isola, che produce ben l’87% di tutto l’olio extra vergine Dop della nostra regione. Il Dop Sardegna, dopo quello pugliese e siciliano, è il più venduto in Italia.

Il fruitore sardo predilige, in generale, i prodotti a prezzo più basso e l’olio di oliva non è certo scevro da questo fenomeno. La società Iri Infoscan, che rileva le vendite alle casse attraverso la lettura dei codici a barre, ci dice che nell’anno solare 2018 i consumi in Sardegna erano così segmentati: olio extra vergine 100% di origine italiana 13,5%; oli di origine non italiana 85,5% e infine gli oli Dop Sardegna con appena lo 0,67% del totale. La produzione isolana è di circa 7/8 milioni di litri di olio extra vergine a fronte di un consumo di 3,5 milioni di litri veicolato attraverso la distribuzione moderna. A differenza di molte altre aree italiane e della stessa isola, il Sassarese oleario non sconta quei caratteri di arretratezza e abbandono che invece, purtroppo, caratterizzano altri territori. Gli oliveti sono generalmente ben curati, i frantoi adeguati alle esigenze di un consumatore moderno e ci sono diverse aziende che riescono a stare sul mercato sia dal punto di vista qualitativo sia soprattutto economico.

Questa istantanea del settore suggerisce diverse riflessioni: il nord Sardegna ha una tradizione e una vocazione fortissima nella produzione dell’olio di oliva; la maggioranza delle aziende olivicole sarde è troppo piccola per affrontare i mercati extra isolani; il mercato sardo non premia le produzioni di qualità che devono essere valorizzate in contesti fuori dall’isola; la leggenda metropolitana che molte catene alberghiere e ristoratori utilizzano per giustificare la mancata presenza di prodotto nazionale sui tavoli delle loro strutture e ristoranti, ovvero che non ci sarebbe abbastanza produzione per soddisfare la domanda regionale, è smentita dai numeri ufficiali delle campagne olearie della Sardegna. E poi: le aziende locali sanno valorizzare molto bene le loro produzioni dal momento che, nonostante la Sardegna abbia una produzione modesta rispetto ad altre regioni italiane, la Dop Sardegna è la terza più venduta in Italia negli scaffali della distribuzione moderna.

Lo scenario del settore è, tuttavia, molto cambiato a livello globale negli ultimi anni. Molte nazioni che non possedevano una tradizione olivicola si sono scoperte vocate a questa coltura e oggi ci troviamo a competere con Paesi che solo venti anni fa non avevano alcuna velleità produttiva e che erano – e ancora sono – tradizionali importatori delle nostre produzioni. Stati Uniti, Sud Africa, Australia, Argentina, Cile, Oman, Sud del Brasile e addirittura Giappone, stanno piantando nuovi oliveti secondo gli standard agronomici più moderni e più efficienti.

Anticipare deve essere il mantra di noi operatori e degli amministratori pubblici perché il mondo cambia molto rapidamente. Nelle aziende che funzionano, le attenzioni e le conseguenti scelte strategiche si concentrano sempre sui quei mercati, quella gamma di prodotti e quelle tecnologie produttive che portano valore aggiunto e promettono margini che mettono nelle condizioni di investire. Si deve invece constatare come le amministrazioni pubbliche abbiano, in buona parte, un approccio paternalistico che poco e ha a che fare con il merito e e le potenzialità delle aziende. Sarebbe invece corretto concentrare investimenti e sforzi sui settori e sulle aziende che hanno dimostrato di essere competitivi e strategicamente posizionati sui mercati. Tale impegno porta con sé l’esternalità positiva di contribuire a creare un raggruppamento settoriale di eccellenza anche e soprattutto dal punto di vista manageriale, vero tallone d’Achille delle nostre imprese. Una ricerca Ismea ha stabilito che solo il 26% delle aziende olivicole è competitivo e tale caratteristica è correlata alla dimensione e alla capacità di innovare. Non basta lamentarsi del fatto che nei sistemi moderni latitino le cultivar nostrane perché l’utilizzo di queste ultime, in buona parte, non è tecnicamente attuabile. Sarebbe auspicabile un bel colpo di reni per accompagnare gli imprenditori che credono nell’olivicoltura e vogliono continuare ad investire. La strada obbligata è impiantare nuovi oliveti affinché la tradizione e la vocazione di questo meraviglioso territorio continuino a vivere e prosperare, mentre chi amministra deve impegnarsi a ridurre il peso della burocrazia.

Infine un cenno a una risorsa rimasta improduttiva da 40 anni e legata al mondo dell’olivicoltura come il compendio di Mamuntanas e Surigheddu, nel territorio algherese. Specie nelle fasi più acute delle campagne elettorali, si sono succedute tante idee e nuove progettualità, tutte legittime ma poco aderenti alla tradizione e alla vocazione di queste due aziende. Aziende agricole, così vengono definite, alle quali però vengono associate attività alberghiere, extra alberghiere, turismi di varia natura, ignorando che ogni ettaro che si sottrae all’attività primaria rappresenta un passo indietro in termini di competitività. Spero che la visione di sviluppo del nostro territorio venga concepita organicamente e non in maniera episodica e che il settore olivicolo possa esserne protagonista e non un rumore di sottofondo da tirar fuori quando meglio conviene.

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