di CRISTIANO SANNA
Benito Urgu, autentico patrimonio della comicità sarda, omaggiato di continuo dai grandi colleghi nazionali, a 80 anni si prende la rivincita definitiva. Storia divertente, di una carriera la sua, sempre nel cuore dei sardi.
E adesso? Dopo il successo del film L’uomo che comprò la Luna prova a permetterti di dargli del comico da piazza popolare, dell’attore di serie B, dell’umorista che al massimo può rappresentare lo stereotipo del sardo bassottello, baffuto e dalla parlata buffa. Candidato come miglior attore non protagonista a uno dei premi più prestigiosi del cinema italiano, il Nastro d’argento, a 80 anni Benito Urgu si toglie forse la più grande soddisfazione della sua ricca carriera. Cominciata da ragazzino con la fuga da casa. Di lavorare tra terra e bestiame non ne poteva più, sognava lo spettacolo, il pubblico, i palchi. Da allora è diventato un patrimonio culturale sardo, e non solo, come hanno riconosciuto Giorgio Panariello, Carlo Conti, Piero Chiambretti e Nino Frassica che lo hanno voluto a più riprese come ospite dei loro programmi. Sguardo sornione ed eterni baffoni, se la ride mentre fa il ritratto di una carriera che rappresenta esattamente la vita che voleva fare.
Benito, com’è finire sotto gli occhi del cinema italiano che conta e rischiare di prendersi uno dei premi più ambiti? “Vivo questo momento come quel calciatore che è stato tutta la vita in panchina. Poi si fa male Cristiano Ronaldo e chiamano te. Ti tocca andare in campo e devi fare gol, diventi all’improvviso Cr7. Beh, io ho già segnato, questa nomination è un successo e ne sono felice”.
Avevi già lavorato con Paolo Zucca in L’arbitro. Eri un allenatore cieco ma che fiutava e capiva il calcio in modo quasi extrasensoriale. Come è stato il lavoro sul set di L’uomo che comprò la Luna? “Molto rigoroso. Il copione doveva essere seguito in modo fedele e abbiamo provato fino alla nausea per ottenere il risultato che vedete al cinema. Ma anche con GeppiCucciari, Jacopo Cullin e gli altri autori e attori c’era un ambiente di grande stima reciproca, come se fossimo una famiglia unita per lo stesso scopo. Di mio ho portato nel personaggio di Badore la figura di mio padre: autoritario, cinico, uno che dava ordini e non ammetteva disubbidienza. Nel film sono il tutore del personaggio interpretato da Jacopo Cullin, quello che lo deve istruire su cosa ci voglia per essere considerati sardi. Un viaggio tra tipicità e luoghi comuni che nel film viene trattato con molta ironia”.
Parlavi di un padre severo. Da cui sei scappato ancora giovanissimo. “Non avevo nessuna voglia di fare il bracciante o l’allevatore. Sognavo lo spettacolo e me lo sono preso, un passo alla volta. Per questo sono scappato da casa giovanissimo, per unirmi al circo dove ho cominciato ad esibirmi in pubblico”.
Ci puoi raccontare gli inizi nel Circo Armando? “Non guadagnavamo tanto ma ci divertivamo da matti, era una grande emozione stare su quel palco. Ho cominciato con Ugo Martini, suonava le tastiere e mi ha insegnato molto: ad andare a tempo, rispettando le parti dei brani. Con lui ho capito diverse cose di cosa voglia dire essere un cantante. Con il figlio Angelo alla batteria eravamo un trio formidabile, ho conosciuto la figlia Laura che cominciava a cantare pure lei giovanissima”.
Con un padre così severo da dove ti arriva la vis comica? “Non saprei, so solo che mi è sempre piaciuto intrattenere e far ridere. Il banco di prova più impegnativo in questo senso è la barzelletta. Se le sai raccontare sei già molto avanti. Quando ero un ragazzino, nella mia Oristano, tutti parlavano di questo Sergi, detto Johnson, che era un raccontatore di barzellette. Ma faceva un errore da evitare come la peste: rideva anche lui mentre le raccontava. Non va bene. Se le racconti, tu devi stare dentro la storia della barzelletta, devi suscitare la risata nel pubblico. Questo è il primo segnale per beccare un comico che bluffa, come un giocatore di poker poco abile”.
E il secondo? “Il secondo è se si tocca il viso o si gratta di continuo il naso mentre la racconta. Vuol dire che non ci crede, che è insicuro. Io ho cercato di rendere le barzellette come piccole scene di teatro popolare: ogni personaggio ha la sua voce, se fa un’azione e produce un suono o un rumore, chi racconta deve simularli. Questo rende viva la comicità”.
Eccoci ai Barritas, gruppo beat pop che divenne un piccolo caso nazionale con Gambale Twist e La messa dei giovani. Come avvenne l’incontro con gli altri musicisti? “Dopo il circo mi ero reinventato fotografo ed ero sempre in giro. E’ stato così che ho incontrato questo gruppo musicale che allora si chiamava Gli assi. Mi sono messo a cantare con loro, a cominciare dalla Canzone di Gigi Casu, diventato poi nel pezzo Efisineddu. Era un attaccabrighe che aveva picchiato l’attore Tiberio Murgia, arrivato in città con pose da divo, in decapottabile e con due ragazze, visto che stava avendo successo nel cinema italiano. Ho raccontato la testata che Gigi Casu-Efisineddu diede a Tiberio Murgia a ritmo di hullygully. Da lì il successo è andato aumentando, da Gambale Twist fino alla messa cattolica in stile beat, all’epoca una cosa abbastanza coraggiosa. Siamo entrati nelle enciclopedie della musica italiana, e ci restiamo con orgoglio”.
Fu più controversa l’uscita di Sexy Fonni, la tua parodia del successo mondiale sexy Je t’aimemoi non plus, di SergeGainsbourg e Jane Birkin. “Sì, la trasmettevano dappertutto, mi colpì e mi venne in testa di farne una versione comica, dissacrante, con il pastore sardo alle prese con una francesina piuttosto caliente. Avevo già cominciato a pensare alla carriera comica da solista, avevo inciso il brano La porsea che aveva avuto successo e creato il gruppo I Porsei. Con i Barritas andavamo d’accordo ma io ero l’unico a non avere il doppio lavoro e faticavo a pagarmi i conti. Quindi andai via, creai Radio BU assieme a Filippo Martinez e cominciai da comico creando tutti i personaggi rimasti celebri: la vecchia Signora Desolina, Tonteddu il pastore, Tore Mitraglia eccetera. La scuola del circo mi tornò molto utile. Facevamo cento serate l’anno, lavoravamo tantissimo ed ero contento. Ed ecco Sexy Fonni, per togliere l’aria scandalosa a tutti questi brani un po’ erotici che imperversavano in radio. La gente rideva e la ascoltava senza sosta, i discografici della Strega all’inizio erano perplessi ma poi si convinsero a investire sul brano e promuoverlo. Alcune radio nazionali già trasmettevano il brano, solo a Milano era presente in centomila copie. Mi chiamò Arbore a L’altra domenica, ma a quel punto la Rai censurò il pezzo e mi impedì di fare il grande salto nella celebrità nazionale”.
Troppo spinto il brano? “Mah, mi son sentito dire un sacco di fesserie: che dicevo parolacce, ma non ce n’è neanche una, che parlavo di particolari spinti, e se ascoltate non ce ne sono. Poi c’era chi mi accusava di aver plagiato Gainsbourg, ma la musica di Sexy Fonni è completamente diversa. Gino Bramieri mi imitò con il brano Hotel. La censura Rai è rimasta. Quando Conti e Frassica mi hanno invitato in trasmissione non si sono azzardati a farmi cantare quel brano. Assurdità”.
Poi anni di spettacoli e ora il cinema con la nomination nazionale. L’inizio di una carriera prestigiosa a 80 anni? “Chissà. Mi hanno proposto ruoli da caratterista in passato, anche qualche cinepanettone, a ho sempre rifiutato. Volevano da me la macchietta del sardo stereotipato e a me non va. Una cosa è la comicità, altra è rischiare di mancare di rispetto a una cultura antica come la nostra. Ma per il futuro non mi preoccupo, ho già comprato un pezzo di terra al cimitero (ride). Vedremo quel che arriva, ma sono felice della vita e carriera che ho avuto”.
Un consiglio per giovani leve dello spettacolo e della comicità? “Essere sempre sinceri, veri, in quel che si fa. Dopodiché: se la gente ti segue vai avanti, se il pubblico è così così correggi te stesso al volo durante lo spettacolo, se stai andando male calandi (in sardo: scendi dal palco e vattene, ndr)”.