di GIUSEPPE CENTORE
Lena è figlia del gelo, delle mele acerbe e dei lamponi. La sua storia è narrata in un racconto che ha vinto il premio Torino Film Festival (riservato al racconto maggiormente adatto a essere trasposto in sceneggiatura cinematografica) al Concorso letterario nazionale Lingua Madre. Il concorso è riservato alle donne straniere che vivono in Italia, un progetto permanente della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Lena, nome anche slavo dalle molteplici origini, è figlia di Sardegna, oltre che di un mondo ostile. Il personaggio è nato dalla penna di Anastassia Caterina Angioi, campionessa di salto in lungo, e adesso carabiniere forestale. Dalla pedana alla scrittura, Anastassia non finisce mai di sorprendere ed entusiasmare. L’atletica appartiene al passato. Il ritiro, mai annunciato ufficialmente, diventa quasi un passaggio di testimone al futuro.
Atleta,
carabiniere forestale, pianista, ginnasta, scrittrice. Non in ordine
cronologico né di importanza. Ma insomma, chi è Anastassia, e cosa vorra fare
da grande? «Bella domanda, (ride – ndr) non lo
so neppure io. Forse come tutti sono un concentrato di mondi ed esperienze che
è difficile scorgere dove finisce una e dove l’altra. La mia storia è banale.
Sono nata a Sassari il 28 aprile di 24 anni fa, ho vissuto in Sardegna sino
alla fine del liceo, e sono bielorussa per parte di madre (in realtà anche se
si schermisce Anastassia è bilingue, come il suo leggero accento slavo dimostra
– ndr). Dall’età di 17 anni sono arruolata nel gruppo sportivo dell’ex
Corpo Forestale, oggi Carabinieri Forestali, e adesso vivo a Roma, studio
psicologia e sto completando un corso che mi porterà a seguire la carriera
nell’Arma anche dopo l’atletica».
Perché “dopo” l’atletica? La sua carriera è terminata? «Sì. Succede a
tutti prima o poi. Sono ancora giovane, ma ho deciso di ritirarmi per mia
scelta. Non butto nulla di quella esperienza e mi porto dentro gli incontri, le
esperienze e le persone che ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere, ma
c’è un momento per tutto, e quello dello sport professionistico, totalizzante,
ma mai assillante, per fortuna, è finito. Quella esperienza ha segnato profondamente
la mia vita, nel bene e nel male. Ho deciso di cambiare aria, forse anche a
causa degli infortuni, ma non per rinnegare il passato, che mi ha dato
tantissimo, ma per guardare avanti, oltre. Adesso mi trovo in una fase di
passaggio che mi sta portando a costruire qualcosa di nuovo, con pazienza e
speranza, come un bruco in un bozzolo. Aspettando la primavera».
E veniamo alla scrittura. Partecipa a un concorso letterario e vince un premio nazionale. Non male come inizio. «La scrittura per me è il pensiero profondo, la costruzione di una tela intessuta lentamente che si dipana verrebbe da dire quasi naturalmente. Il racconto che ho presentato non è il primo. Ne ho scritti tanti altri, ma con un profilo simile: dare voce a chi non la possiede, raccontare chi dona se stessa agli altri. Ho sempre pensato fosse questa la magia e la forza delle parole, il loro viaggiare, il loro superare le barriere di tempo, ingiustizie e orgoglio. È così che è nato il racconto “Un posto nel mondo” che ha vinto il premio di Torino. Mi ha ispirato una storia, mai raccontata, e forse nemmeno mai completamente vissuta, di una donna conosciuta tanti anni fa. Una donna impregnata di malamore e avvolta nel disamore».
Ma come è nata la sua passione per la scrittura? «Ho iniziato a scrivere molto presto. Ho scritto tanto, ma i miei racconti sono rimasti tutti nei cassetti. Solo da qualche anno ho deciso di espormi un pochino di più e condividere questo scrivere anche all’esterno. Ho mandato i miei elaborati a diversi concorsi, quasi per gioco senza grandi aspettative, non tanto per i concorsi in sé quanto per il desiderio che qualcuno possa leggere, e magari ritrovarsi, oppure porsi nuove domande. E invece è successo l’impensabile: in quei concorsi le giurie hanno trovato i miei testi adatti a essere pubblicati. Poi ho deciso di partecipare anche a questo concorso, con la vicenda di Lena. Non mi aspettavo che venisse premiato, né tantomeno che venisse giudicato sceneggiabile, ma è solo un racconto».
Doppia
famiglia, sassarese e bielorussa. «Ci
vado quando posso, compatibilmente con gli impegni e il lavoro. Da mio nonno ho
preso forse la passione per l’atletica; lui era decatleta e poi campione russo
dei 400 ostacoli. Quei luoghi per me sono come casa, non solo per questioni di
sangue. Ciò non toglie che mi senta anche sarda. Il ciondolo che porto al collo
rappresenta la Sardegna, non me ne separo mai, ma è evidente che ho la fortuna
di vivere due volte i sentimenti di appartenenza. E come tutti li vivo con
gioia e dolore, come quando rivedo la guerra negli occhi di mia bisnonna
materna, partigiana. O quando vedo mia madre commuoversi ancora per le canzoni
di 75 anni fa cantate durante la cacciata dei nazisti. Sono sarda e sassarese,
ma anche lì sono le mie radici. Per fortuna che tutto ciò lo vivo serenamente,
senza contrasti».
Un romanzo, un autore, un luogo per lei indimenticabili. «Risposta
sincera, quasi senza rifletterci: Anna Karenina e Lev Tolstoj. Quel libro l’ho
letto per la prima volta al ginnasio e l’ho sentito subito mio. Non mi vergogno
a dire che non so più quante volte l’ho riletto. Per me non è solo un libro, ma
è una piccola-grande enciclopedia del sentimento, del tormento e dell’amore.
Delle lacrime e dei sorrisi. Sul luogo spero di non essere macabra, ma ogni
tanto a Roma faccio una passeggiata al cimitero acattolico a Testaccio, e mi
fermo davanti alla tomba del poeta inglese John Keats, quello “il cui nome fu
scritto sull’acqua”, come recita l’epitaffio. Forse sono uscita da un romanzo
romantico, o forse è tutto un gioco, per adesso un bel gioco».
E ora, cosa le riserverà il futuro? «Studio, studio e ancora studio. Scrittura e lettura, testi universitari e professionali. Vorrei aprire le porte a nuovi pensieri, a nuovi modi di vedere la vita, a realtà che spesso conosciamo poco e teniamo a distanza e che giudichiamo senza conoscere. L’Altro, il diverso non è un nemico, ma una risorsa e una conquista. Forse per questo sogno a occhi aperti, per superare la paura e l’ignoranza che ci circonda e che rovina ingrossando la coltre di indifferenza che ci avvolge la nostra umanità».
La scrittura come antidolorifico dell’anima o come lente per osservare senza cadervi dentro un mondo sempre più distopico? «Non posso sceglierle entrambe? Un potente ma sereno lenitivo dell’anima, almeno nel mio caso. Quando scrivo mi sento al mio posto, come quando mi siedo al pianoforte e suono, e come quando saltavo, o come quando avevo sei anni e facevo ginnastica artistica. Mi sentivo sempre al mio posto, facevo quello che mi piaceva, e devo dire la verità non mi chiedevo il perché. La scrittura come lente? Anche, e non mi sembra poco. Ogni parola strappata alla noncuranza, al malanimo, non cade nel vuoto, si muove verso la sensibilità, verso la vita. Credo che siamo tutti debitori a questa vita di amore e purezza. La scrittura, come qualunque altra attività, ci può avvicinare a essi. E poi a me piace troppo, e devo confessarlo, diverte pure».