di TONINO OPPES
Tutto è cominciato quando aveva quattordici anni. Valentina Sulas è attrice affermata ma non dimentica i suoi esordi.
“Come posso?” dice mentre fruga tra i suoi ricordi. “Avevo letto, su un quotidiano, di un laboratorio teatrale. Mi sono iscritta, ed ora eccomi qui a raccontare.” E allora fermiamoci un attimo per parlare degli esordi che sono fondamentali nella costruzione di qualunque progetto di vita.
Ci incontriamo lungo il litorale di Cagliari. Abbiamo sullo sfondo la Sella del Diavolo. La giornata è fredda ma soleggiata. Il mare a gennaio è un incanto e, quando il cielo è terso, regala i suoi mille colori. Sembra quasi la scenografia ideale per l’intervista aduna delle attrici sarde più apprezzate. Nella sua corposa biografia ci sono soprattutto teatro e cinema, ma non si può dimenticare che Valentina Sulas,cagliaritana con radici sicule e campane, molto spesso,è anche autrice e regista dei lavori che porta in scena.
C’era tra i tuoi sogni di ragazza quello di fare l’attrice? No, non lo sognavo. Inizialmente non pensavo potesse diventare una professione: c’erano gli studi da portare avanti, il Liceo Classico, l’Università con il corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere. Ma il teatro – anche quando ho trovato la mia indipendenza economica, lavorando in settori molto diversi – mi ha accompagnato sempre come secondo lavoro. Ora, da molti anni, ormai, la mia vita professionale ruota esclusivamente attorno al teatro e al cinema.
Soddisfatta? Sì, molto, ma non è stato facile. La formazione è importantissima. Ecco a proposito degli inizi di cui mi chiedi: ho fatto tanti corsi, workshop, laboratori e la Scuola per l’Arte dell’Attore diretta da Marco Parodi, dove si lavorava per cinque ore al giorno, dal lunedì al venerdì, tutti i mesi tranne l’estate. Tutto questo è stato fondamentale nel mio percorso formativo.
Cinema o teatro: se dovessi scegliere? Riguardo a cinema e teatro, credo che la ricerca della verità sia il comune denominatore.Cambia il modo in cui in cui questa essenziale verità, onestà potrei dire, viene espressa. E’ diverso il linguaggio. Il cinema ti permette di raccontare con uno sguardo: esistono i primi piani e la modifica di un’inquadratura può trasformare radicalmente una scena. Il pubblico in teatro ti dà un’adrenalina fortissima e reagisce a quello che fai, lo senti: la performance è sempre diversa, non ci saranno mai due repliche davvero identiche. Lo spettacolo è il risultato di una quantità di giornate di studio e di prove: è come la gara per un atleta, che si allena tutti i giorni. Sul palco poi ci sono competenze essenziali, tecniche, per così dire, che devi aver sviluppato: la voce, il corpo, lo spazio. Nel cinema, quelle competenze, non le utilizzi allo stesso modo, è chiaro. Ma hai comunque la possibilità di fare tuo il personaggio.
Interpretando quale ruolo ti sei sentita realizzata di più? Difficile fare una graduatoria. Diciamo che ogni ruolo è arrivato nel momento giusto, e anche quelli che non ho vissuto bene, professionalmente o umanamente, mi hanno fatto crescere.
Quello che ti ha dato le maggiori soddisfazioni? In generale i ruoli più lontani e diversi da me sono quelli che mi danno più soddisfazione. Questa è, in fondo, la magia della recitazione: essere qualcun altro!
Non ti chiedo di indicarmi il regista più bravo, ma quello al quale devi di più? Ho lavorato con tanti registi, e con tutti sono cresciuta. Nel cinema ricordo con affetto uno dei primi ruoli diretta da Rocco Papaleo in “Una piccola impresa meridionale”. Nel teatro sicuramente Marco Parodi: è stato il mio maestro e ha creduto sempre in me; ma non posso dimenticare la danzatrice e artista Rita Spadola: lei mi ha insegnato come muovermi sul palco.
Proporre a teatro “Grazia Deledda” cosa ha significato per te? E’stato sempre il mio desiderio che ho concretizzato nel 2014, a Edimburgo, con “The Mother of the Priest”, proposto in Lingua inglese e poi tradotto in Italiano. Ho lavorato per mesi all’adattamento del romanzo “La Madre” che è una delle opere meno note del premio Nobel. Racconta la storia di un giovane prete di campagna che si innamora di una ragazza. La madre cerca di salvarli entrambi. A Edimburgo sono andata in scena per ventidue giorni. Lo spettacolo è in tournée ancora oggi con il titolo “La madre del prete”.
Proprio con questo tuo lavoro sei stata ospite di numerosi Circoli degli emigrati. Cosa vuol dire portare un’opera, tratta da un romanzo di Grazia Deledda, tra i Sardi che vivono lontano dalla propria terra? I Circoli e le Associazioni fanno veramente tanto per promuovere la Sardegna. Partecipare alle loro iniziative significa creare occasioni di incontro con la realtà dell’emigrazione e della diffusione della cultura e della tradizione sarda. Personalmente ho sempre trovato una calda ospitalità e un interesse reale per l’importanza artistica di Grazia Deledda. Le attività dei Circoli sono puro volontariato, non c’è lucro, solo la volontà di far conoscere la Cultura sarda. Quello che fanno è lodevole. Meritano tutta la nostra attenzione e il nostro plauso più sincero.
Che suggerimenti puoi dare a un giovane che vuole fare teatro. Quanto è importante crederci? Tutto sta nella determinazione e nell’impegno. I risultati arrivano! Lavorare nel teatro e nella cultura non è facile, ma è possibile.
I tuoi impegni attuali? In questo momento sto lavorando a un nuovo spettacolo per la regia di Marco Parodi e mi occupo di alcuni progetti cinematografici molto interessanti. A teatro porto, invece, due miei lavori che mi danno grandi soddisfazioni: “Lettere in scena”, incentrato sul rapporto epistolare tra Gramsci e la moglie Julka, e “Oltre il mare”, una storia sulla famiglia, la nostalgia e il ritorno a casa, in cui emerge l’impulso atavico dei Sardi ad attraversare il mare che ci circonda.E poi sto scrivendo… la scrittura, per me, è libertà oltre che compagna straordinaria della recitazione.
Cosa c’è nella tua vita oltre al teatro e al cinema, cosa ti piace fare di più quando non sei impegnata con il lavoro? Ci sono tante cose belle. Intanto la mia famiglia e poi viaggiare; scrivere, appunto, e leggere: ecco questa è un’abitudine che custodisco da quando ero bambina grazie anche ai miei genitori; poi, lo confesso, mi piacciono la buona cucina e il buon vino.
Valentina Sulas sorride prima di volgere un altro sguardo verso il mare. La nostra intervista finisce quando si preannuncia l’ora del tramonto. La Sella del Diavolo è vicinissima. In lontananza decine di fenicotteri volano in direzione dello stagno e macchiano di rosso un cielo che sembra già carico di magia. Come in un film in cui la Natura è protagonista con tutte le sue storie.
per gentile concessione della rivista LACANAS
Brava Valentina. Interprete eterea di diversi personaggi
Bravissima
Bravissima Valentina 👏👏❤️
Cara cugina jr. ( dato che sono cugino di tua madre Ada), è molto interessante quest’intervista perché non è un cliché. Brava la giornalista a toccare certi tasti essenziali, bravissima tu a essere sempre sincera, spontanea, autentica. Io faccio teatro amatoriale ( quindi siamo su altri livelli) da una quarantina d’anni ( ero in servizio come Ufficiale di Marina, ma già allora mi dicevano che facevo l’ufficiale per hobby e il letterato per professione, allora ero solo autore di alcuni testi teatrali, poi col tempo sono diventato anche regista e qualche volta attore) , tuttavia le emozioni, le scansioni, le aspettative, le ansie, le angosce, sono più o meno le stesse perché comunque devi rispondere a un pubblico, pagante o meno. Fare teatro è, – come scrivo nel libro ACQUA ROTTA che ho inviato a tua madre, è sipario di luci e ombre, fatica e vanità, ma prima di tutto comunicare, comunicarsi, spogliarsi, denudarsi l’anima. ” Me ne sto murato in questo sottoscala della vita a guardare il transito delle ombre che s’affollano davanti a me come una silenziosa processione d’alberi sfumati: querce, abeti, platani, tigli, magnolie, salici, dietro cui s’affacciano – gocce di fuoco, rondini di perle, danza nella danza, velo di velo, lume nel lume – i miei dolci morti, mia madre, mia nonna, la zia Rina, mio padre, mio fratello Alberto… In silenzio, per recessi speculari, per elargiti anfratti, ambulacri del nulla, sento il grido scheggiato di una voce che non è più mia: ciack, si gira» Io non ho fatto alcuna scuola specifica, non ho avuto nessun maestro, non ho calcato scena importanti, ma continuo a farlo nel mio piccolo abbinando allo spettacolo (quando ci riesco) la didattica, la conoscenza, la storia, la cultura, che di solito viene spesso apparentata a qualcosa di molto noioso e riservata esclusivamente agli addetti ai lavori. Cerco di evitare tutto ciò, proponendo magari autori difficilissimi come Beckett, Nietzsche, Kafka, o poeti come Montale, Lorca, Pavese, Neruda, Scotellaro, etc. Ormai questa forma ibrida (spesso lo spettacolo si fa in palestra, senza nessuno scenario) di teatro-interludio, è rimasta la mia sola forma di appagamento , una delle poche scusanti dell’esistenza, e tuttavia c’è sempre il rischio che possa portarmi fuori dalla realtà che è quella della famiglia, di cui è sempre obbligo morale , civile e umano, direi fondamentale, occuparmi, che esige da me una maggiore presenza e disponibilità . Purtroppo le cose non sono sempre conciliabili, ed è questo il mio rammarico-rimorso. Ti faccio i più grandi e splendidi auguri per la tua carriera, e spero ( non si sa mai, anche se è difficile che possa muovermi io), che un giorno ci si possa incontrare. Un abbraccio. Augusto tuo cugino Sr.
Brava Valentina