PIU’ TESTIMONIANZE VERE E MENO FESTE E CARNEVALI: STORIA DI UN PASTORE BARBARICINO DEL SECOLO SCORSO

di TONINO BUSSU

Ecco la testimonianza di un pastore barbaricino del secolo scorso: “Quando ho fatto per la prima volta il servo pastore mi avevano comprato delle pecore a 15 lire l’una (eravamo nel 1906 e, come salario annuale, a sos theracos bonos, ai bravi servi pastori allora davano 15 pecore all’anno, però dovevano pagarsi il pascolo e le tasse comunali). Nelle annate sfavorevoli, sas annadas malas, parte del bestiame moriva per malattie o per mancanza di pascolo(denutrizione) a causa della siccità, per cui al servo pastore di 15 pecore gliene rimanevano sette o otto e quindi era difficile riuscire a costituirsi un gregge. E così anche a me nel 1913, cando mi soe acordau, quando ho fatto il contratto di servo pastore, mi hanno pattuito 15 pecore per quell’anno. Ma, pensate un po’, si viveva all’aperto, dove dorminano le pecore, dormiva il pastore, qualche volta c’era una pinnetta, ma raramente si entrava dentro perché era necessario stare dietro le pecore. In autunno, quando pioveva il pastore teneva tutta la notte il fuoco acceso, bisaccia di pelle dietro le spalle, coperto col mantello di orbace, dormiva fuori, dietro una siepe per ripararsi dal vento e dalle intemperie naturali. In quelle annate difficili non si ricavava niente. Il pastore lottava per salvare il gregge, il latte serviva per gli agnelli, le pecore mangiavano il fogliame di leccio, quercia o lentisco e spesso raschiavano il terreno con le zampe alla ricerca disperata di cibo.  Immaginatevi la disperazione del pastore che massimo si faceva la provvista di qualche agnello e un po’ di formaggio.”

E come se non bastasse l’inclemenza del clima sopraggiunse anche l’oppressione politica. Ecco cosa ci dice ancora questo pastore verso il 1925: “A metà degli Anni Venti passavano in campagna le squadre del Fascio e ci dicevano: ‘E a ti marcas fascista?’  E io rispondevo: ‘Ma si no isco mancu ite cheret narrere fascista?’ ‘O ti marcas a custu chirru o ti ghettamus cust’ampulla de ozu gramanu, là!?’ E così facevano in tutti i paesi, ci si doveva iscrivere per forza, a su poderiu. Terribile era stata l’esperienza nei primi Anni Trenta. Sono stato a Paulilatino, ero associato ad altri pastori, il prezzo del latte era molto basso, sette soddos al litro, a Macomer era a otto e a Sindia a nove. A giugno abbiamo fatto il formaggio. Ad agosto eravamo in agro di Macomer e un incendio ci ha distrutto l’ovile: se non ci fossimo dati da fare avrebbe bruciato le pecore e anche a noi; il fuoco ha distrutto il formaggio, che sembrava patata arrosto, insieme a su pinnettu e a quel che c’era dentro. Un disastro immane, spaventoso, una grande sventura! Nel 1944 a Ottana l’annata era pessima, gli agnelli di quattro chili li pagavano a otto lire, non si ricavava nulla; si aveva un po’ di patate, grano , orzo, alcune forme di formaggio, il maiale da ingrasso sempre, su mannale, ma soldi non ce n’erano nemmeno per pagare le tasse che erano sempre troppe. E se non le pagavi arrivava l’esattore che sequestrava anche i bottoni del costume, le posate, sas sartaines, sas socas e altro ancora. Roba da non credere!! 
Nel 1945 le cavallette hanno spogliato i campi e gli alberi e, come se non bastasse, si aggiunsero la siccità, accompagnata dae sa bucca mala, l’afta epizootica, che hanno contribuito a decimarmi il gregge.  Ma io ho avuto il coraggio e la forza di riprendermi e di ricominciare da capo, spostandomi lontano alla ricerca di pascolo in quel di Gesturi. In un primo tempo le pecore erano così indebolite dal clima e dalla scarsezza di pascolo che venivano facilmente attaccate dalle malattie e dai pidocchi, poi pian piano si sono riprese ed andai avanti.”

Questa era la Sardegna di allora carica di sacrifici, di stenti, di pericoli, mentre si aspettava la liberazione dalla fame, dallo sfruttamento e dalla miseria e i nostri giovani erano fuori dall’isola chiamati dal re a combattere su vari fronti e ancora non erano tornati e molti non sarebbero mai più tornati nelle loro case fredde o nei loro ovili a cielo aperto per condurre le pecore e combattere contro le avversità del tempo, delle annate, ma anche tra le difficoltà dovute alle problematiche del regime fondiario e allo sfruttamento degli industriali caseari che detenevano il monopolio del commercio del formaggio affamando i pastori allora come oggi. Qualcuno era stato anche in Russia, chi in Germania, chi in Grecia, chi in Africa. Qualcuno era rientrato dall’Africa nel dopoguerra e invece di festeggiare il 25 aprile, di cui mai aveva sentito parlare, aveva invece fatto voto, in quelle terre bruciate dal sole, che se si fosse salvato e fosse tornato vivo al suo paese, avrebbe festeggiato la festa di San Pietro e aiat fatu su ghionarzu, divenendone il priore, e gai at fatu s’annu ifatu, cun grandu festa, il 29 di giugno. Chissà quanti etiopi o abissini avrà ucciso però, sempre pro ordine e in onore de su re e de su duce, che ormai non c’erano più perchè l’Italia era diventata repubblicana e con essa, per forza, anche la Sardegna(nonostante avesse votato monarchia)! Erano più importanti le feste religiose che non quelle civili allora come ora nei nostri paesi. E anche il 28 aprile, Sa Die de sa Sardigna si festeggia con i contributi pubblici della Regione Autonoma della Sardegna, non perchè è sentita come festa del Popolo Sardo. Infatti, tra l’altro, è vacanza solo nelle scuole e molti giovani studenti forse non sanno nemmeno per quale motivo in quel giorno non si fa lezione. Io sono del parere che motivi per festeggiare ce ne siano tutti i giorni e ce ne siano troppi. E non bastant prus sas dies de s’annu pro totu sas festas civiles e religiosas. Alcune bisognerebbe accorparle, anzi parecchie, compresi i carnevali, perché mi paret totu unu carrasecare a distempus. A fàghere prus cosas serias diat èssere, mih!? Ca nde tenimus meda bisonzu. Non bos paret!?

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Un commento

  1. Interessante!!!

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