di LALLA CAREDDU
Incontriamo la sassarese Bianca Pitzorno in una delle tappe del suo tour di presentazioni del suo ultimo romanzo, Il sogno della macchina da cucire, uscito per i tipi di Bompiani.
La sala è gremita per questa signora cordiale ed affettuosa, che ha alle sue spalle innumerevoli successi editoriali, un passato di archeologa, insegnante, autrice televisiva e di teatro, traduttrice, ma soprattutto autrice per l’infanzia tradotta in moltissime lingue, anche se negli ultimi anni molto più spesso scrive romanzi per l’età adulta. Nel suo ultimo romanzo la macchina da cucire è un sogno. Perché? Ogni volta che metto su casa controllo che ci siano due indispensabili strumenti: un trapano e una macchina da cucire. Di queste attualmente ne possiedo tre e le uso con grande piacere e con abilità. Un tempo tutte le donne sapevano cucire. Era una attività indispensabile, ovvia, come cucinare e pulire, per una vita ‘civile’ della famiglia e anche di una persona sola. Perché cucire diventasse un mestiere, venisse fatto per estranei e procurasse del denaro, occorreva una particolare abilità. Spesso, quando ammiriamo nei quadri antichi degli abiti particolarmente belli, complicati e sontuosi, non ci passa per la mente che sono stati tutti cuciti a mano. Invece così era, fino alla metà dell’Ottocento, quando l’invenzione prima e poi la produzione industriale delle macchine da cucire le rese accessibili anche ai privati. Però non erano oggetti economici e solo i benestanti se le potevano permettere. Le sartine più povere per decenni continuarono a cucire a mano, guadagnando così poco che a stento – come spiega dettagliatamente Eugene Sue nel romanzo L’ebreo errante – riuscivano a sopravvivere.
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