di ANDREA TRAMONTE
Le sue illustrazioni sono il risultato dell’incontro tra le decorazioni dell’iconografia sarda – geometrie e pattern floreali ispirati ai costumi tradizionali -, la pittura italiana del Cinquecento e un uso contemporaneo della tipografia. Il riferimento all’Isola in particolare è quasi una necessità per Matteo Giuseppe Pani, graphic designer e illustratore sardo, nato a Uta 29 anni fa e da più di due anni a New York. “È un legame con le radici, da mantenere forte specie da quando vivo lontano da casa”, spiega, “ma anche un elemento distintivo: nella grafica si tende a inseguire determinate mode e si rischia di fare dei lavori che mancano di personalità. Bisogna imparare a essere diversi, a differenziarsi. Cercare di aggrapparmi alla tradizione sarda è un modo per farlo, per rendere i miei lavori davvero personali”.
La necessità di essere diversi, di osare: il coraggio di farlo. Uno degli insegnamenti più importanti che ha tratto da Stefan Sagmeister, il designer austriaco da cui ha lavorato negli ultimi due anni, titolare, insieme a Jessica Walsh, di uno degli studi di grafica e comunicazione più celebri al mondo: Sagmeister& Walsh, appunto. Pani si è trasferito negli States nel 2017 dopo aver inseguito per lungo tempo il sogno di lavorare con loro. Ora si divide tra i lavori di grafica e branding e le illustrazioni, che avranno un peso sempre maggiore nel suo percorso: “Vorrei essere libero di dedicarmi all’arte sempre di più”, dice. Intanto un suo lavoro è uscito a dicembre sul New Yorker, e ha segnato il suo debutto in quello che è da sempre uno dei punti di riferimento internazionali per il mondo dell’illustrazione.
La passione per l’arte è qualcosa che lo accompagna fin da bambino. “Mentre i miei coetanei giocavano a calcio, io disegnavo e usavo la plastilina”, racconta. “Mia madre, professoressa di inglese, a volte mi portava con sé a Villacidro dove insegnava: a scuola facevano il tempo prolungato coi laboratori d’arte e i suoi colleghi le dicevano sempre che avrei potuto fare un percorso artistico”. Dopo lo scientifico si iscrive allo Ied di Cagliari, dove rimane un anno. Poi si trasferisce a Milano, e rimane quattro anni. Infine va a Londra per un master in graphic branding al London college of communication, grazie al quale inizia a entrare in contatto con realtà importanti inglesi.
Lavora per un mese alla Rga, compagnia di comunicazione soprattutto digital, e poi si mette in testa di lavorare con Sagmeister, che all’epoca stava cercando nuovi collaboratori. “L’idea è nata un giorno alla Tate Modern a Londra”, racconta Matteo. “Ero agli inizi e stavo cercando un libro di grafica che mi facesse capire qualcosa di più di questo mondo. In uno di questi ho trovato un riferimento a lui. Lì per lì non mi aveva neanche fatto impazzire dal punto di vista grafico – le mie conoscenze allora erano limitate – ma mi piaceva moltissimo la sua mentalità. Il fatto che selezionasse i clienti per non dover scendere a compromessi: meno clienti, anche piccoli, però con la libertà di fare quello che aveva in testa. Ho capito che volevo lavorare con lui”.
Il traguardo però non è così immediato. Nel 2012 il primo tentativo di lavorare con lui: ne serviranno altri cinque o sei prima di riuscire a farsi accogliere da quello che è una sorta di rockstar nel mondo della grafica contemporanea (e non a caso, visto che tra l’altro ha realizzato copertine per dischi di David Bowie, Talking Heads, Rolling Stones, Lou Reed). Inizialmente lo ha messo alla prova in Europa, affidandogli alcune campagne moda attraverso la creazione di mock up (“Si creano dei layout in studio tramite photoshop, immagini che poi serviranno al fotografo per capire come sarà il set”). Infine nel 2017 è stato chiamato a New York per lavorare fianco a fianco con lui e il suo team. Uno dei lavori più prestigiosi che ha realizzato con Sameister& Walsh è stato progettare una copertina per il New York Times Magazine.
Il tema dell’articolo principale era qualcosa tipo: come la salute degli animali può aiutare a capire meglio la nostra salute; allora Pani per la cover ha progettato l’immagine di un cane e di un gatto vestiti da medici. “La cosa bella dello studio è che anche se non hai una grande esperienza ti viene data la possibilità di crescere velocemente”, racconta. “Lavorare per un magazine importante come il NYT ti mette una pressione enorme, ma ti dà una motivazione così forte che anche una sola esperienza riesce a farti maturare moltissimo”.
I due anni da S&W hanno cambiato la vita professionale e personale di Matteo. Soprattutto nel confronto con due mostri sacri della grafica, con le difficoltà e gli stimoli che derivano dall’avere a che fare con delle personalità brillanti e – per certi versi – ingombranti. “Sagmeister è bravo e severo. Quando lavori con lui non ti dà la soluzione ma ti spinge a trovarla da solo, dandoti dei consigli che ti portano nella direzione giusta. In questo senso è anche umile: si siede vicino a te, ti chiede il tuo parere ed è pronto ad accoglierlo. Jessica Walsh invece non si preoccupa del fatto che non hai esperienza. Si fida del talento dei suoi collaboratori. Non dice: tu sei appena arrivato, quindi ti escludo dal progetto bello. Se hai una capacità che serve al progetto, allora ti coinvolge”.
Oltre ai lavori nel campo della moda, Pani si è occupato delle illustrazioni per un giovane brand americano di valigie, Baboon. “Il nome del marchio, babbuino, richiama da subito l’idea di una sconnessione, qualcosa che non c’entra nulla con le valigie. Un po’ di pazzia, diciamo. Il mio lavoro allora è andato in quella direzione”. Matteo ha disegnato alcuni interni delle valigie: un triceratopo cavalcato da un babbuino con pattern di rose, una donna con una radio in mano sopra un altro dinosauro… “Una comunicazione fuori dagli schemi. Una valigia è una valigia. Allora per differenziarti puoi provare a fare dei lavori del genere”.
Sagmeister& Walsh hanno da poco pubblicato un libro per Phaidon, “Beauty”, un’esplorazione della bellezza che è anche una mostra in programma in questo momento a Vienna. Pani ha disegnato la copertina del libro e partecipato al “Beauty Show” con due installazioni. “Per noi grafici e designer la bellezza spesso coincide con la funzione. Se pensi all’architettura del Novecento vedi degli esempi di edifici molto razionali, molto funzionali, che però rischiano di risultare brutti. Allora Beauty cerca di dire: anche l’aspetto non funzionale è fondamentale. Anche l’estetica è funzionale. Prendi la B, una lettera che per un grafico non è l’ideale come design: ecco, l’abbiamo decorata e abbellita in modo barocco. Ed è diventata la cover del libro che ho curato io”.
Si tratta di uno degli ultimi lavori fatti con loro: a breve Matteo dovrebbe firmare con un’altra compagnia. “Pian piano però vorrei spostarmi dal design all’arte”, racconta. “Mi piacerebbe rendere le mie illustrazioni dei murales e degli arazzi, magari da realizzare in Sardegna. Mi piace l’idea di avere la libertà di scegliere quello che voglio fare”. I suoi lavori contengono una serie di richiami all’Isola, nascosti o espliciti: decorazioni floreali o geometrie della tradizione artigianale sarda, colori dei costumi o delle bisacce: tutto rivisitato in chiave contemporanea. “Il mio artista sardo preferito è Costantino Nivola“, dice, e non a caso. “Ha fatto anche un percorso nella grafica, con Olivetti a New York. E poi amo il suo ballare tra tradizione e contemporaneità”.
Ecco perché non ti vedo più nella webcam!
Buona fortuna, Matteo, ovunque tu sia 🙂