di ATTILIO SCIENZA - Università degli Studi di Milano
Se il nome di un vitigno è connesso all’atto della sua domesticazione o della sua selezione e questo atto non puo’ essere sottoposto a nessun tipo di analisi scientifica in quanto sconfina nel mito, per i palmenti, la loro forma, le dimensioni, la struttura delle parti che li compongono, i materiali usati per la loro realizzazione, la localizzazione, sono indizi fondamentali per ricostruire la cultura del vino di un territorio. Tra gli elementi costitutivi di un luogo vitato, che assieme ne definiscono il carattere, il genius loci, è quindi possibile collocare, i palmenti e attraverso un’analisi fenomenologica di tipo indiziario, giungere a caratterizzare un luogo non solo per le peculiarita’ geomorfologiche o storiche o antropologiche ma anche per la tipologia di palmenti utilizzati per la vinificazione. Il flusso interpretativo che si sviluppa partendo dal nome del luogo (che permane nel tempo sebbene corrotto nel succedersi delle lingue), verso il mito (che viene adattato al linguaggio spirituale del momento), giunge infine alla figura (che resiste alle trasformazioni secolari) dove sono contenute le memorie dell’origine di un palmento. Il vitigno antico ed il palmento rappresentano quindi gli “elementi strutturanti”, una sorta di centro rituale, carico di implicazioni economiche, politiche e simboliche. Una rappresentazione metaforica del procedere della storia per anelli successivi, nei quali si fondono le esperienze dei popoli che vengono a contatto tra loro, ognuno dei quali è punto di arrivo e di partenza, può essere applicata al cammino della vite da oriente a occidente. Il terzo anello, che identifica il territorio antico della Magna Grecia, è quello che ha generato il maggior numero di vitigni e di strutture atte alla vinificazione, come dimostrano i resti di palmenti di molte regioni dell’Italia meridionale e insulare. Accanto a queste ipotesi, sta sempre più affermandosi, anche per il successo crescente delle suggestioni autoctone, il concetto – sostenuto da tempo anche da archeologici ed archeobotanici italiani – di una domesticazione della vite nel Neolitico in molte aree europee, associata alla presenza di piani di pigiatura primitivi. L’occasione di un approfondimento su questo tema, è contenuta nell’appassionante lavoro di ricerca di Cinzia Loi, nelle regioni storiche del Guilcer e Barigadu, che ha dimostrato la precocità e l’autonomia della coltivazione della vite e dei processi di vinificazione arcaici in ambito sardo. Attraverso l’enorme mole di riscontri archeologici e di spunti interpretativi, la giovane ma valente ricercatrice, apre uno spiraglio sulle grandi attese che sono connesse allo studio dei palmenti del Mediterraneo, nello studio dei processi sociali ed economici che hanno favorito la circolazione antica dei vitigni e dei metodi della loro coltivazione. Probabilmente il modo di produrre il vino ha influenzato la maniera di bere, riproducendo una nuova diversità culturale e colturale, che partiva dalla tradizione (la protoviticoltura delle viti selvatiche) ma la rinnovava e la rimescolava con l’apporto asianico, attraverso vitigni più produttivi e maggiormente ricchi di zuccheri, più adatti a produrre vini dolci, aromatici ed alcolici. Assieme agli apporti della semantica e della semiotica del paesaggio vitato, con i suoi mitemi ormai in via d’irrimediabile scomparsa, è necessario utilizzare nell’analisi di questi relitti quei metodi d’indagine che Le Goff definisce “nuovi”, quali la sociologia, la demografia, l’antropologia e l’etologia. Inoltre per costruire le mappe della circolazione delle varie popolazioni in Europa, per conoscere non solo la loro origine geografica ma anche i percorsi spaziali e gli sviluppi temporali della diffusione, necessario dare l’avvio alla costituzione di una banca dati internazionale che comprenda la descrizione delle caratteristiche dei palmenti presenti nell’Europa mediterranea, nel nord-Africa, nel Levante medio orientale e nelle regioni caucasiche. L’archeologia è la disciplina più scientifica della discipline letterarie e utilizza le tecnologie delle cosiddette “scienze dure”. Per il suo carattere sociale non è rivolta solo alla speculazione culturale, ma serve anche all’economia, può diventare il filo conduttore dello story-telling del vino. L’Italia è un Paese che gode universalmente di una fama meritata per la sua cultura “diffusa”, per quelli che vengono chiamati dagli antropologi, i giacimenti artistici e alimentari. Ciò significa che ogni piccolo borgo possiede una pieve con un quadro di un artista famoso, o un castello che racconta una storia millenaria, o un prodotto alimentare originale, o un vino antico. Anche la viticoltura è espressione di una stratificazione culturale antica: ogni angolo della nostra Penisola nasconde un tesoro costituito da vitigni quasi sconosciuti e da tradizioni enologiche che sono state tramandate intatte da tempi immemorabili. Perché non inserire anche i palmenti rupestri del Guilcer e del Barigadu tra i giacimenti culturali più importanti d’Italia? In un’epoca dove la perdita dell’identità culturale è rappresenta da una vera e propria amnesia collettiva delle proprie tradizioni artistiche, superando come spesso capita la parodia regionalistica per adottare uno stile internazionale, i palmenti possono rappresentare degli iconemi capaci di “teatralizzare la viticoltura ed i suoi territori” con le intuibili conseguenze positive sul turismo locale.
Bellissimo articolo, riconoscimento del valore della ricerca portata avanti con capacità e perseveranza da Cinzia Loi.
Paradossalmente lo studio della catena operativa della produzione del vino è troppo poco considerata, sia in ambito accademico che divulgativo. Paradossalmente perché dovrebbe essere una colonna portante della nostra Cultura materiale.
Un sonoro plauso a questa studiosa.
Sono perfettamente d’accordo, inseriamo i palmenti rupestri del Guilcer e del Barigadu fra i giacimenti culturali di pubblico dominio. Estendendo, la propria regionalita’ ad un qualcosa che possa spaziare verso orizzonti più ampi. E naturalmente rendiamo il giusto merito alle persone, che con passione e sacrificio, ci hanno fatto conoscere queste meraviglie, molto spesso nascoste, della nostra millenaria cultura.
Congratulazioni a Cinzia Loi e a tutte le persone che la sostengono nella sua attività di ricerca e divulgazione, e ovviamente anche al prof. Scienza per l’interessante articolo.
Grazie a Cinzia e a Tonino Arcadu, l’estate scorsa ho potuto visitare i palmenti rupestri di Ardauli, una delle realtà più stupefacenti in Italia: al contrario di altre aree, qui le decine di antichi manufatti in pietra sono tuttora inseriti nei vigneti, restituendoci una chiara immagine di come la selezione naturale delle pratiche vitivinicole sia arrivata a noi.
Ardauli è davvero un’occasione unica e preziosa per attirare l’interesse del turismo del vino internazionale.
Ringrazio la dott.ssa Cinzia Loi per la sua passione e per aver dato il suo importante contribuito affinché non si dimentichi e soprattuto si conosca il grande patrimonio che abbiamo e che la maggior parte di noi tutti i giorni calpesta ignaro. Un grazie al prof. Attilio Scienza per aver dato risonanza a questo importante studio di Cinzia e che ha suggerito l’importante opportunità che i giovani sardi dovrebbero cogliere al volo!
A distanza di tre anni, l’instancabile lavoro di Cinzia non si è fermato. Ad esempio, il risultato recente del “concorso” istituito dalla Loi e dall’associazione Paleoworking Sardegna è stato illuminante (https://sites.google.com/unife.it/paleoworking-sardegna/concorso-lacos-2020?authuser=0) realizzando un ottimo esempio di ciò che da qualche tempo è definibile come un evento di “Archeologia Partecipata”.
In sostanza, attraverso un semplice invito a partecipare ad un concorso fotografico rivolto ai proprietari di campagne Ardaulesi è stato indetto un Contest, richiedendo immagini del palmento e del suo circondario. Ciò ha permesso di raggiungere il duplice obbiettivo: promuovere la Cultura del Luogo (rendendone consapevoli tutti i cittadini) celebrando gite e premiazione finale delle “foto più belle” ed effettuare un “censimento informale” di manufatti ancora non conosciuti, alcuni dei quali antichissimi grazie all’opera dei proprietari. Il censimento, alla fine, ha permesso di raddoppiare il numero di palmenti precedentemente (e faticosamente) conosciuti dagli studiosi nelle campagne, ricchissime di altre testimonianze archeologiche.