di PIETRO CASULA
Volendo stilare una lista delle cose andate perse in questi ultimi anni, al primo posto ci metterei la fiducia. La fiducia nella Chiesa e suoi rappresentanti va sempre più sminuendo – come diverse inchieste dimostrano – e quella riposta nella politica e nei politici è in ogni caso irrimediabilmente rovinata, se non inesistente. Diffidiamo anche dei nostri vicini e soprattutto di quelli che per situazioni di emergenza sbarcano sulla nostra terra oppure di quelli che vivono in condizioni di povertà in mezzo a noi. Direi, quasi, che la perdita di fiducia sia in, sia di moda, un qualcosa come elevarsi a mente critica per molte persone. Soprattutto chi non si fida sta dalla parte giusta e preparato per tutte le delusioni che la vita ha in serbo. Da questo si evince una amara constatazione e cioè che la perdita di fiducia è tipica in tempi di percepita incertezza. Dopo la guerra la ricostruzione fu fatta in fretta e furia e a volte anche male. Il lavoro era molto duro e spesso insostenibile: miniere, raffinerie in riva al Mare, ciminiere, inceneritori. Ma con il lavoro si produceva la ricchezza. Oggi i soldi si fanno con altri soldi, il lavoro sembra diventato un problema. Non vanno ricostruite soltanto le strade, alberghi e periferie. Basilare, e molto più importante, è ricostruire la fiducia in noi stessi, nella nostra terra, nel futuro. Attualmente la fiducia è assoluta rarità; nessuno si fida più di nessuno, e la rete, i social contribuiscono a propagare una cultura di risentimento, sostanzialmente controproducente ed inadatta a sviluppi, conclusioni apprezzabili. La colpa è sempre degli altri. Natzionalisti, indipendentisti, sovranisti – e adesso al coro si aggiungono anche i (pseudo)progressisti e i riformisti – sono convinti che la nostra Sardegna sarebbe una grande nazione/Stato se l’Italia non l’avesse sopraffatta con violenza e poi colonizzata. Ma se la colpa è degli altri, vogliamo continuare , apatici e inebetiti, a guardare e chiederci che ci possiamo fare? Il cambiamento che mi auguro dal nuovo anno è proprio questo, ossia capire finalmente che molto – se non tutto – dipende esclusivamente da noi. Non dall’Europa, non dal governo centrale, non dall’irrompente Trump, non dagli avidi arabi o cinesi, non dalle banche, non dalla odiosa casta ma da noi. I partiti tradizionali hanno clamorosamente fallito. Ma se il criterio del rinnovamento, del ricambio è la mediocrità, se il logico intervento diretto a modificare – qualitativamente – è quello di „ uno del popolo“, allora la nuova classe dirigente potrebbe rivelarsi – sempre che una escalation a quella attuale sia possibile – peggiore della vecchia. La salvezza non verrà dalla politica, da questa politica. Può venire soltanto da noi stessi. Nei terribili decenni di crisi, i sardi hanno dimostrato la loro innata disposizione a resistere. Adesso si tratta di fare un’altro passo, di cambiare passo e ritrovare la capacità di credere in noi stessi e quindi anche di investire e rischiare. Ogni strumento può essere una rivoluzione. All’inizio dell’industrializzazione c’era il motore a vapore. Ora l’Intelligenza Artificiale sta rivoluzionando il mondo del lavoro. Ma non bisogna sgomentarsi per quanto dicono i profeti apocalittici. Nel 1995 il sociologo statunitense Jeremy Rifkin proclamò „ la fine del lavoro“ perché le macchine distruggono i posti di lavoro in fabbrica. Lo fecero sicuramente, ma quanti nuovi posti di lavoro sorsero nel settore dei servizi, Rifkin non ha potuto immaginarsi. Di recente uno studio del World Economic Forum ha previsto che la digitalizzazione distruggerà – entro il 2025 – 75milioni di posti di lavoro in tutto il mondo. Quindi per la prima volta più lavoro sarà svolto dalle macchine che dall’essere umano. Terrificante idea e un mondo senza una persona allo sportello bancario, alla cassa del supermercato, nei magazzini o nell’ufficio delle imposte è già immaginabile. Tuttavia nessun motivo per farsi prendere dal panico. Il lavoro non scompare, cambia modus. Il Forum economico prevede , nel suo documento, anche 133 milioni di nuovi posti di lavoro. Dobbiamo solo esserci, con una nuova cultura di apprendimento, con il giusto percorso formativo. Per ripartire, per dare un futuro bisogna ri-trovare la capacità di credere in noi stessi , di investire, di rischiare. Puntare su questo e non cercare capri espiatori su cui riversare le nostre responsabilità, solo quando ci renderemo conto delle potenzialità della nostra terra, della nostra gente nel contesto globale smetteremo la ricerca del „redentore“ e anziché stare a guardare gli stranieri che si arricchiscono vendendo i nostri prodotti saremo no stessi a seminare e raccogliere.