di ALESSANDRO PIRINA
Andrea Satta
ha una doppia vita. O tripla, o forse quadrupla. Pediatra, cantante, scrittore
di fiabe per bambini, giornalista. Tutte professioni con un unico comune
denominatore: l’enorme trasporto che lui mette in tutto ciò che fa. A guidare
la sua vita è la passione. Per i bambini, la sanità, l’arte, l’impegno civile.
Un modus vivendi che lo accompagna da sempre. «Sono un pediatra nella
periferia di Roma ma da tanti anni anche un artista – racconta Satta –. Vivo
una dimensione che sembra strana ma non lo è. I bambini sono una fonte
artistica già da soli, non credo avrei potuto fare un altro lavoro. L’obiettivo
di un artista è la meraviglia, trasformare l’ordinario in qualcosa di
straordinario. Ai bambini questo viene naturale». Andrea Satta vive dalla nascita
nella periferia est di Roma, dove il padre Gavino, professore di francese
originario di Luogosanto, si trasferisce nel dopoguerra dopo essere scampato al
campo di concentramento tedesco di Lengenfeld. Il colpo di fulmine per la
musica scocca quando è ancora bambino, viene anche selezionato per lo Zecchino
d’ oro, ma «mio padre non mi mandò. “Il ragazzo deve studiare”, diceva. Mi
sarei dovuto trasferire per un po’ a Milano e lui aveva una educazione antica,
ma a conti fatti forse anche giusta». Meglio allora il ciclismo. Andrea si
appassiona alle due ruote – da “grande” seguirà il Giro d’Italia e il Tour de
France per il Manifesto e l’Unità -, ma la passione per la musica non lo
abbandona. In particolare per gli chansonnier francesi, su tutti Leo
Ferré. Studia canto, si fa una band con gli amici, una volta si improvvisa
musicista di liscio a un veglione di Capodanno. La svolta nel 1992: insieme ad
Angelo Pelini, Carlo Amato e Luca De Carlo fonda i Têtes de Bois. In 26 anni
mille concerti, festival, tre targhe Tenco, colonne sonore, partecipazioni tv,
sul palco di Sanremo insieme a Paolo Rossi.
Ma la musica e l’arte sono solo una parte della vita di Satta. L’altra è la
medicina. O meglio la pediatria. «Io non volevo fare il medico ma il pediatra –
sottolinea –. Se non fossi entrato alla scuola di specializzazione non avrei
fatto il medico. Io volevo avere a che fare con i bambini, è la dimensione che
mi piace. Faccio il pediatra tutti i giorni, ho quasi mille piccoli pazienti,
la metà di loro ha un genitore non italiano». Il suo ambulatorio tutto colorato
è fuori dal comune. Lui non indossa il camice e da tutti si fa chiamare Andrea.
«Nel mio ambulatorio si è creata una sorta di comunità – racconta –. Da 9 anni
le mamme vengono a raccontare la fiaba con cui si addormentavano da piccole:
sono mamme di tutto il mondo, provenienti da 30 paesi diversi, portano dolci,
scambiano esperienze, nascono amicizie. Con il tempo si è abbassata la soglia
del pregiudizio e la diffidenza è evaporata».
È il progetto “mamme narranti”, nato quando una giovane madre straniera gli
raccontò di essere a Roma da anni, ma di sentirsi molto sola. «Un paio di
giorni dopo, nella sala d’aspetto appesi un foglio con cui invitavo le mamme a
farci conoscere qualcosa di bello e tenero della loro vita. Per esempio, come
si addormentavano da piccole – racconta –. Comprai, e me ne vergogno ancora,
tutto quello che un bravo pediatra non consiglia: bevande gassate, patatine e
altre cose poco raccomandabili, ma volevo attirare i bambini, temevo il flop.
Le mamme invece mi sorpresero e si presentarono numerose e poi, quando
comparvero i biscotti palestinesi, i couscous, le frittate e le schiacciate
romene e calabresi, piatti albanesi, capii che ce l’avevamo fatta. I discorsi
da medioevo che si sentono oggi non ci sarebbero se uno trascorresse una sera
nel mio ambulatorio». E proprio le mamme sono le sue fan numero uno quando
Andrea e i Têtes de Bois calcano l’Ariston con Paolo Rossi nel 2007. «Per un
po’ ho vissuto con fatica la mia doppia vita, ma quando sono andato a Sanremo
hanno fatto gruppi di ascolto, mi hanno mandato fiori, sms: condividevano la
mia doppia vita e la cosa mi ha resto più sereno».
Andrea è nato e cresciuto a Roma, la Sardegna del padre la sta scoprendo da
adulto. «Mi è mancato tantissimo non viverla di più da bambino, le attribuisco
una autenticità rarissima». E il viaggio sulle tracce dei luoghi di Gavino è il
tema dello spettacolo “La fisarmonica verde”. «Mio padre era un uomo arcaico,
un grande raccontatore di silenzi. La sua è stata la vita di un uomo normale
che partì in guerra perché si doveva partire e che tornò anche se era difficile
tornare. Non era mica un eroe». Ma solo dopo la sua morte Andrea scopre che la
vita del padre non era stata quella di un nome normale. Era tutto scritto in
una lettera ritrovata tra le pagine di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
«Sapevo che aveva trascorso due anni in un lager, ma mai ci aveva raccontato
che fu testimone della morte dei 40 suoi amici, chiusi in una baracca in legno
e bruciati vivi su ordine del LagerfuhrerHartmann. E che tre mesi dopo,
crollato il nazismo, trovò il torturatore seduto su una panca alla stazione di
Dresda. Avrebbe potuto finirlo a palate per quello che aveva fatto ai suoi
compagni. Invece, lo prese e lo portò al comando di polizia per farlo
arrestare». Da questa scoperta tardiva parte il viaggio – poi raccontato nello
spettacolo – alla ricerca delle origini del padre, a Luogosanto. «Ho ripercorso
le sue passeggiate a Monti Juanni, ho trovato amici
che mi hanno raccontato della sua famiglia, li chiamavano i Ribeddi, i ribelli perché amavano fare scherzi. A settembre ho portato lo spettacolo a Luogosanto. Non dimenticherò mai tutta la gente commossa in piedi ad applaudire. Un’emozione unica».