di SERGIO PORTAS
Michela Murgia (Cabras, 1972) è dotata di una intelligenza superiore, possiede poi un sacco di altre buone qualità che le hanno permesso di mantenersi indenne (o quasi) da tutta una serie di situazioni che l’hanno vista protagonista nel ruolo di venditrice di multiproprietà piuttosto che di dirigente amministrativa in una centrale termoelettrica, di insegnante di religione nelle scuole piuttosto che operatrice fiscale. Per tacere della sua attività in un call-center, tutto descritto in un blog che l’avrebbe portata ai fasti del successo tramite il film che ne avrebbe tratto Paolo Virzì (Tutta la vita davanti). Fino ai trent’anni dirigente di Azione Cattolica. Se poi consideriamo che ha avuto la ventura di avere due mamme (è stata fill’ e anima) e, dice lei, in casa non c’erano libri che non fossero quelli della collana “Harmony”, c’è da domandarsi da dove abbia tratto la sapienza di scrittura che la contraddistingue. Per quello che ne capisco io lei dà il meglio di sé nei saggi (ma L’Accabadora è un gran bel romanzo) perché é in quel genere che l’originalità del pensiero si mostra in tutta la sua brillantezza, un diverso modo di vedere le cose della vita. E scusate se è poco. Una volta quelli capaci di tanto li chiamavano intellettuali e, prima che internet venisse a dettare le nuove coordinate del vivere civile, erano accreditati ad accendere faville di sapienza del magma delle opinioni comuni, quella che i greci chiamavano “doxa”. Non che avessero in tasca l’”episteme”, la verità, è che la loro visione del mondo contava, aveva valore. Michela in questo si difende alla grande, intanto perché lei i cosiddetti “social” li sa usare molto bene quindi è del tutto presente sulla palestra in cui si giocano i destini della quotidianità, poi perché nel rischioso ring del successo, che ancora oggi volenti o nolenti ha per “medium” la televisione, è capace di “performance” di tutto rispetto: sia alle “TV delle ragazze” della Dandini, che alla rubrica letteraria di Corrado Augias, che alla “7” di Lilli Gruber tenendo testa a Paolo Mieli. Cresce in notorietà da che Salvini (il Capitano che regge la politica della nazione) le ha”twittato” contro nel ribadire (“exusatio non petita”) che lui fascista non è. Mentre Michela nel suo ultimo libro-denuncia: “Istruzioni per diventare fascisti” (Einaudi, 2018) mette in copertina che “Fascista è chi fascista fa”, sottotitolo un po’ alla “Forest Gump” se vogliamo, ma che ha dalla sua quel candore, quell’ingenuità che mira a sottrarre il termine incriminato a una guerra di nominalismi che devierebbe inevitabilmente i termini della questione. Non a caso sia Mieli che Augias (che il fascismo storico l’hanno vissuto sulla loro pelle) si lanciano al riguardo in una serie infinita di distinguo, Michela risponde loro che il fascismo è un metodo, un modo di affrontare la vita, di approcciarsi agli altri, che tratti di fascismo albergano in molti che si professerebbero di un progressismo specchiato, persino in lei stessa. E comunque, alla fine del libro, vi è una sorta di “fascistometro”, ognuno può rispondere ad una serie di affermazioni in cui si ritrova e scoprire così il suo grado di “fascismo”. Insomma in questo saggio l’ironia, il paradosso, le sapienti provocazioni sono tutte spese ad alzare la guardia su di un presente che mostra la tentazione di rivolgersi a un inquietante passato nel tentativo di risolvere tutte le contraddizioni che lo attraversano. Come diceva quel tale ebreo tedesco di Treviri nel “18 brumaio di Luigi Bonaparte”: “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”, a pagarne comunque le spese sempre le classi dei poveri, in soldi e in spirito. A consolazione quel tal palestinese di Betlemme li aveva proclamato beati, che loro sarà il regno dei cieli. Già in un altro “libriccino” edito nel 2016 sempre per Einaudi: “Futuro interiore”, Michela Murgia, sempre in copertina sottolineava che: “Chi non ha risposte si salverà forse con una domanda, se saprà sceglierla bene. Sapremmo dire chi siamo senza evocare sangue e suolo? La democrazia avrà spazio per la bellezza? Si può essere potenti insieme, anziché uno contro l’altro?”. “Uno sguardo illuminista sul naufragio sociale” così titola “Repubblica” del 3 luglio 2016, facendo scrivere a Lionetta Bentivoglio di questa trasmigrazione della Murgia dal romanzo classico pieno di riferimenti letterari ( aveva appena scritto “Chirù, Einaudi ed., n.d.r.) alla forma saggistica puntando alla sintesi di un pamphlet lucido e rovente. A prova di questo eclettismo “alto” Michela era alla “Feltrinelli” di piazza Duomo in Milano a duettare in arguzia e genialità intellettuale con Chiara Valerio, un’altra “cattiva ragazza” del panorama culturale italiano: del tipo (rubo da Wikipedia): dottorato in matematica al Federico II di Napoli, redattrice di riviste, ha scritto per radio e teatro, collaborato per il “Sole 24 ore” e l’”Unità”, ha scritto soggetti cinematografici con Nanni Moretti e Gianni Amelio, scrive per il settimanale “Robinson” di “Repubblica” e per “Amica”, pubblica libri (A complicare le cose, Fermati un minuto a salutare, Storia umana della matematica, ecc.), è tuttora direttrice della fiera del libro milanese “Tempo di libri”, editor per la narrativa italiana di Marsilio. (Non ho dubbi, quando ai bei tempi andati “noi maschi” comandavamo davvero usando a mò di gestione del potere la “santissima Inquisizione”, queste due le avremmo bruciate come streghe). Con Marsilio Michela porta qui la sua ultima fatica letteraria: “L’inferno è una buona memoria”, la collana che pubblica con lei il suo primo libro si chiama “Passa parola”: da una lettura a una vita: gli scrittori italiani raccontano del mondo e di sé partendo da un libro, che ritengono fondamentale nel loro cammino personale. Che ti è andata a scegliere Michela a questo proposito: nientedimeno che un “fantasy” che Marion Zimmer Bradley, americana di Albany, contea di New York, aveva scritto nel 1983 (a 53 anni), edito in Italia tre anni dopo col titolo: “Le nebbie di Avalon”, mi ci sarei imbattuto un paio d’anni dopo, in vacanza al mare, a San Giovanni in Sinis, la mia amica Mariella che generosamente mi ospitava nella casa che aveva a due passi da Tarros era una cultrice del genere. Dico a voi come ho detto a Michela un mese fa, rubando la battuta a Paolo Villaggio: allora l’avevo giudicato “una cagata pazzesca”. Lei l’ha comprato alla stazione marittima di Olbia nel 2002 perché voleva un “romanzo di ambientazione fantastica che mi tenesse compagnia in leggerezza nella traversata notturna in nave tra la Sardegna e Civitavecchia. Avevo trent’anni, non ero una ragazzina…” (pag.14). “E’, per dirla brutalmente, proprio il tipo di libro che molti degli intellettuali che conosco, non leggerebbero mai perché mal sopportano l’idea di potersi emozionare per la stessa storia per cui fibrilla il cuore della loro parrucchiera. A me invece conoscere cosa muove il cuore degli altri interessa moltissimo, perché non credo che si scuota per qualcosa di diverso da quel che agita il mio” (pag16). Il libro in questione fa parte del “Ciclo di Avalon” e, in estrema sintesi, racconta delle storie di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda dal punto di vista delle donne (come fanno tutti i moltissimi libri della Zimmer-Bradley, considerata la “regina del fantasy” e tradotta in oltre venti lingue del mondo, con conseguenti vendite milionarie). Dice Michela che le sacerdotesse di Avalon le ricordavano sua nonna (io potevo darle del tu, mamma mia no), aveva una ventina di galline tutte battezzate con un nome: Lillabella, Rubia, Imbriaga caracollava più delle altre), nonostante ogni giorno le chiamasse per nome nel dar loro il pastone di crusca, quando si trattava di tirare il collo a quella che doveva finire in pentola la domenica, non aveva esitazioni di sorta. Allora pensavo che fosse senza tenerezza. Le sacerdotesse di Avalon facevano le stesse cose ai parenti. Tu non possiedi un potere vero se non puoi manipolarli. Più li ami più puoi maltrattarli. Anche le donne possono abusare di chi amano. L’odio che Morgana ha per Ginevra è lo stesso di quello che ho dentro di me. Il quadro politico è segnato dalle lotte per la saldezza del trono di Britannia. Poi c’è il conflitto religioso tra i druidi e i cristiani, in questo intreccio di interessi si inserisce il conflitto che più di tutti preme all’autrice: quello di genere. I druidi (maschi) sarebbero perfino disposti a venire a patti col cristianesimo, rimarrebbero ancora sacerdoti, le sacerdotesse invece sono da subito consce che proteggendo il culto della Dea, proteggono anche la loro sopravvivenza, in quanto donne. Dove il Dio è uno, maschio e padre, nessuna donna avrà più parti da protagonista. “In nessuno dei libri che avevo letto fin a quel momento il conflitto di genere era stato posto con quella chiarezza, né mai l’avevo visto collegato all’immaginario religioso. Ne uscii scioccata…Mentre facevo quella traversata in mare nella notte con in mano “Le nebbie di Avalon”, io ero vice-presidente diocesana dell’Azione cattolica” (pag.49). Tra il pubblico presente in sala c’è anche Helena Janeczek, col suo “La ragazza con la Leica” (Guanda ed.), ha vinto l’ultimo premio “Strega”, nata a Monaco di Baviera da una famiglia di ebrei di origine polacca, il suo libro narra di Gerda Taro, la prima fotografa caduta sui campi di battaglia, era l’estate del 1937, durante la guerra di Spagna. A nazismo oramai imperante. Sia lei che la Murgia partecipano attivamente alla campagna a sostegno della missione Mediterranea con la nave Mare Ionio che pattuglia il canale di Sicilia per soccorrere i migranti (per donare: www.mediterraneo rescue). Su “Repubblica” del 1° novembre Zita Dazzi le interroga per due pagine titolando: “Attenti al fascista che è in noi”, come Michela anche io penso che viviamo uno di quei passaggi storici in cui si deve reagire oppure ci si spezza. Come Helena che l’alternativa alla destra non può più essere una destra light.