di CINZIA LOI
Il lentisco (Pistacia lentiscus L.) è un arbusto sempreverde della famiglia delle Anacardiaceae. La pianta, di altezza variabile dai 3 ai 4 metri, è una specie dioica, ovvero ha fiori o solo maschili o solo femminili in infiorescenze a racemo, di colore verde i femminili e rosso bruno i maschili. Il frutto è una piccola drupa sferica o ovoidale (frutto carnoso con un unico seme avvolto da endocarpo legnoso), di 4-5 mm, di colore rosso tendente al nero nel corso della maturazione. Fiorisce da marzo ad aprile. Il lentisco è una pianta tipica della macchia mediterranea, molto diffusa in Sardegna, in cui è stata indicata con diversi nomi: kèssa, su moddìttsi, lestìnku, listìnku,lostìnku.
Le foglie, ricche di tannino, venivano impiegate per la concia delle pelli, mentre il legno, ottimo da ardere, veniva usato per produrre carbone vegetale. Virgulti di lentisco costituivano anche l’intelaiatura, le strutture rigide dei cestini da lavoro. Andrea Manca Dell’Arca, nella sua“Agricoltura di Sardegna”, nel 1780 scriveva: “Dal medesimo legno si raccoglie resina o gomma molto medicinale,ch’essendo la Sardegna sì abbondante di lentisco, doveva esser un genere cagionante uno delli traffichi per i forestieri, ma la sperienza ci fa vedere che né a Sardi, né a forestieri residenti nel Regno cale prendersi fatica in raccoglierla, forse per non sapere il modo, tempo e diligenza che si richiede”.
Dai frutti si ricava un olio, utilizzato un tempo principalmente per l’illuminazione, per la cura delle ferite del bestiame e, nelle tavole dei poveri, per uso alimentare.
Palladio, che possedeva vasti terreni nella zona di Neapolis, nella sua opera sull’Agricoltura Opus Agriculturae, consigliava la produzione di olio di lentisco ai suoi lettori.
Metodologie di produzione dell’olio di lentisco fra etnografia e sperimentazione
Attraverso varie campagne di indagine etnografica nell’area del Barigadu, regione storico geografica della Sardegna centrale, in cui l’uso dell’olio di lentisco (s’odzu ’e listínku) è documentato fino agli anni 40 del Novecento, sono emerse diverse testimonianze sui metodi di produzione dello stesso, oggetto di studio nel presente lavoro.
La raccolta delle drupe (su listínku),attività riservata qui alle donne, aveva luogo da Novembre fino a Gennaio inoltrato, quando da rosse divengono nere. Un’ottima zona di raccolta pare fosse quella prossima alle attuali rive del Lago Omodeo, nel territorio del comune di Bidonì.
Il materiale necessario alla raccolta era costituito essenzialmente da un crivello (su kilíru), tenuto poco sotto il petto mediante una funicella fatta passare attorno al collo, e da un sacco di lino grezzo. La raccolta avveniva sfregando energicamente, con ambo le mani,ramo contro ramo (friĝare).
Una volta terminata la raccolta, e dopo un breve periodo di riposo, si procedeva alla lavorazione. Le drupe, immerse -all’interno di un grosso recipiente – in abbondante acqua fredda portata poi ad ebollizione, venivano ripescate a cottura ultimata, ovvero man mano che salivano a galla, e trasferite all’interno di un sacco di forma allungata.
La spremitura, realizzata in quest’area attraverso la pigiatura diretta, a piedi nudi, al di sopra di un semplice masso di pietra- certamente il metodo più antico – o di un tronco cavo, era agevolata dall’utilizzo costante di acqua calda, versata all’interno del sacco. Nell’area logudorese, invece, il contenuto del sacco – tenuto con la mano appoggiato aduna tavola inclinata che permetteva al liquido di scorrere verso il contenitore– veniva schiacciato con l’ausilio di un mattarello.
Il liquido così estratto veniva portato e tenuto in ebollizione per circa tre ore, avendo cura di eliminare la schiuma che si formava in superficie (argentare).Dopo un eguale lasso di tempo, si procedeva alla separazione dell’olio dal liquido acquoso. Tale liquido veniva riposto sul fuoco al fine di procedere aduna seconda e, talvolta ad una terza, estrazione. I residui della spremitura venivano dati in pasto ai maiali ed alle galline.
Oltre al procedimento sopra descritto –attraverso il quale si arriva a produrre 17 litri circa di olio per un quintale di prodotto, è stato sperimentato anche il procedimento a “freddo”, utilizzando strumenti manuali tradizionali.
Le bacche del lentisco, dopo la mondatura,sono state poste – in piccole quantità – all’interno di un mortaio di marmo e schiacciate con un pestello di legno. Durante questa operazione, la stessa che veniva effettuata con le macine in pietra nei vecchi frantoi, si verifica la rottura delle membrane cellulari. Dalla frangitura si ottiene una pasta di colore vinaccia, dall’intenso profumo resinoso, e dalla consistenza di una purea di frutta. La stessa è stata omogeneizzata con la gramolatura, ossia attraverso un rimescolamento energico che favorisce il ricongiungimento delle particelle di olio disperse in essa. La pasta così ottenuta è stata introdotta in un torchietto a vite che ha permesso la separazione della la fase solida (frammenti di noccioli, bucce e polpa) da quella liquida (emulsione di acqua e olio). Il liquido risultante, raccolto in un recipiente alto e stretto, ha mostrato – dopo un breve periodo di decantazione- un sottile strato di olio sulla superficie. Sarebbe interessante sottoporre l’olio così prodotto alle dovute analisi,al fine di comprendere se esso presenti qualità migliori rispetto a quello ottenuto mediante il procedimento a caldo.
Le donne del Barigadu utilizzavano l’olio di lentisco in cucina, soprattutto per friggere “sas tsíppulas”, il dolce del carnevale sardo. Al fine di eliminarne il sapore asprigno, giunto ad ebollizione, vi aggiungevano una fetta di pane oppure la scorza di un’arancia. Degli altri usi si è già detto.
Testimonianze archeologiche sulla spremitura nel territorio del Barigadu
In Sardegna, le tecniche di produzione dell’olio di lentisco erano note, con ogni probabilità, fin dalla Preistoria. Che questo olio fosse usato in Sardegna nell’epoca nuragica, lo testimonierebbe, secondo il Lilliu, una vasca di marna calcarea atta alla macerazione dei frutti del lentisco, rinvenuta in un vano della reggia nuragica di Barumini. A ciò si aggiungano gli innumerevoli esempi di lucerne di varia tipologia della stessa epoca emerse dagli scavi archeologici.
Nel Barigadu, il rinvenimento di fondi di pressa (arae) e contrappesi (stelae) in svariati siti di epoca romana e alto medievale, sembrerebbe riportabile alla produzione di oleumlentiscinum.
A Neoneli, in località Su Littu, fra il materiale riutilizzato per la costruzione dei muretti a secco, è stato individuato un pressoio litico che presenta – lungo il bordo e in posizione centrale – una canaletta di scolo che si conclude con un beccuccio. Sempre a Neoneli, in località S. Maria, è stato rinvenuto un secondo pressoio in trachite simile a quello documentato in località Su Littu, costituito da un unico blocco di sezione trapezoidale, con canaletta lungo tutto il contorno e al centro che si conclude con un beccuccio di scolo (m 0,66 x 1,00 x 0,40/0,20 di spessore). Pressoi analoghi sono stati rinvenuti, in zona, al Nuraghe Losa.
Ad Ardauli, in località Idd’Edera, si conservano i resti di un probabile insediamento di epoca romana. L’abitato è documentato, oltre che da un gruppo di sette orto stati e da un cippo funerario del tipo “a capanna”, da numerosi blocchi in trachite squadrati, embrici e vasellame. Tra di essi è stato individuato un blocco di trachite tagliato informa di parallelepipedo con scanalatura lungo i lati brevi e lunghi dello spessore, che doveva fungere, con ogni probabilità, da contrappeso di torchio del tipo a leva. In località Candala, sulla riva sinistra del lago Omodeo, fu rinvenuto un blocco in trachite analogo a quello sopra descritto. L’area risulta attualmente sommersa dalle acque del lago Omodeo.
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Il circolo di Zurigo vi augura un buon Natale e un felice anno nuovo.
A Escalaplano c’è la sagra
Illustrazione molto interessante ed esaustiva, grazie