di MARIA ANTONIETTA FENU
Pteridophilia, per chi non lo sapesse, è una espressione, tra le molte possibili, del cosiddetto Eco-sesso e indica il rapporto erotizzato che alcuni esseri umani amano intrattenere con le felci. Su questa materia insolita esiste un video di tenore poetico, secondo l’apprezzamento di alcuni spettatori, che ne hanno esaltato la raffinatezza estetico-filmica. Girate dall’artista cinese Zheng Bo espressamente per Manifesta 12, – la biennale itinerante in corso per il suo dodicesimo anno a Palermo, città nominata Capitale della Cultura 2018 -, le riprese con le felci in questo anno hanno molto fatto parlare di se. In coerenza col tema trattato il video di Zeheng Bo è a tutt’oggi proiettato nell’Orto Botanico della città. Sito universitario prestigioso, sin dal settecento famoso in tutta Europa per le sue ricerche scientifiche d’avanguardia e poi per le sue ampie dimensioni e anche per la varietà straordinaria delle piante, grazie al video cinese di Manifesta 12, fruibile nella dovuta riservatezza tra le fronde interne di un albero esotico, l’Orto di Palermo ha scatenato per la sua trasgressività inaspettata una ridda di polemiche, slatentizzando il meglio o il peggio dei Social, che hanno gridato al genio o allo scandalo. Non è successo nulla di nuovo. Quaranta e passa anni fa, nel 1977, ben più sofferta polemica, ai tempi in cui Internet era non ancora in vita, si accese intorno alla ferita morale dei nativi sardi, insorta dalla storia e dalle immagini che i fratelli Paolo e Vittorio Taviani avevano portato al pubblico di Cannes con il loro film Padre Padrone. Nato per ispirazione dal libro omonimo di Gavino Ledda, tra le molte pagine del film si assisteva all’iniziazione sessuale di un pastorello, per volontà del Padre costretto allo stato di analfabetismo e isolato dal mondo civile sin dall’età dei sei anni, che, nella ricerca adolescenziale di amore impossibile, si accoppiava confusamente con una capretta. Il film vinse la Palma d’oro a Cannes, e dunque fu valutata come particolarmente artistica e culturalmente preziosa l’operazione cinematografica che i Taviani seppero costruire intorno a quel particolare romanzo autobiografico scritto da un ex pastore redento. Nonostante il lusinghiero successo internazionale di Cannes la Sardegna, in buona parte, visse con vergogna la messa in piazza di un aspetto storicamente realistico ma del tutto parziale della propria ricchissima cultura, non valutando che la propria terra intensa, arcaica e per nulla addomesticabile si prestava per l’occhio cinematografico sapiente a uno speciale discorso strutturale sulla relazione di sangue padre-figlio. Tale visione primaria e primordiale andava molto oltre i confini delle tradizioni culturali dell’isola. Fu dunque impropriamente da loro sottovalutato anche l’elemento a dir poco eroico, e di certo tutto sardo, della rivolta indomabile dell’oramai ventenne Gavino, analfabeta e ignaro di tutto ma che, strappato finalmente al padre aguzzino dal Servizio Militare di antica memoria, cominciò per conto suo a studiare per arrivare alla laurea sino a misurarsi poi con la scrittura di un romanzo-denuncia sulla propria vita. Gavino Ledda ha vinto il Premio Viareggio e il suo libro, riconosciuto da tutti come testimonianza-capolavoro, è stato tradotto in quarantasette lingue. E’ stata una vittoria personale senza fine contro la violenza morale-psicologica, e non solo quella fisica, subìta da Gavino a partire dalla più tenera età e che, nonostante tutto, non lo ha visto piegarsi sino in fondo. I registi Taviani, ben navigati nel registro cinematografico di taglio selettivo, non intendevano certo parlare solo della Sardegna e dei suoi lati primitivi ma l’hanno scelta e usata, – perché no ? -, quale ambiente irripetibile ed espressivo, anche dal punto di vista geo-naturalistico, di quanto definito da loro stessi: “ Semplicemente biblico”. A fronte della cultura isolana della Sardegna infatti, un detto continentale, che nella durezza lapidaria rappresenta bene il mondo contadino toscano, era di fatto ben più familiare e noto ai fratelli Taviani che non l’esperienza isolana di Gavino Ledda. Il detto, obsoleto ma incisivo, sintetizza il nucleo di quel sentire atavico che riguarda la paternità e il cui principio suona: “Io t’ho fatto e io ti disfo”. La rappresentazione di questo ruolo paterno primigenio mai avrebbe potuto, dal punto di vista dell’esito filmico, essere ambientato nei paesaggi trecenteschi della campagna senese e tra le colline della Toscana, scandita sempre, nei suoi garbati limitari, non da rocce mitologiche di granito rosa ma da ordinati filari di cipressi. Il padre arcaico, toscano, sardo o pugliese, come ciclope ideologico del potere, reclama il diritto di vita e di morte sulla prole, considerata possesso e mera emanazione di se’. I figli dunque non devono ottenere il riconoscimento di una identità propria, specifica, diversa; non devono avere una esistenza libera. Il loro senso è di onorare chi gli ha dato la vita, il cibo, e la casa, ma che avrebbe potuto non farlo: un figlio non può e non deve mai dire di no. Tutto questo suona ridicolo, oggi, nella società detta civile, e tuttavia il culto de il potere sull’Altro, in nome dell’amore, del vincolo, è molto più presente di quanto non sembri. La paternità di cui parliamo non nasce solo dalla visione della prole intesa come forza-lavoro, nel suo aspetto squisitamente economico e in osservanza della logica della necessità di stampo contadino. Dove c’è terra, l’obiettivo primo è l’incremento della produzione ortofrutticola e la famiglia deve fare squadra in questo. C’è una questione concreta di sopravvivenza. Il sentimento di possesso o meglio di proprietà descritto in Padre Padrone è invece una categoria del vincolo di sangue che non riconosce nè desideri nè identità separata da se’ nell’altro. Questa categoria tirannica degli affetti circola nei lati più reconditi della mente umana, a volte di là dal fattore culturale, e osserva un bisogno ancestrale di scongiurare il fisiologico avvicendamento generazionale. Possiamo anche dire, ma la sostanza non cambia, che l’essere umano, come espresso ne La vita è sogno, di Calderon de la Barca, si agita vanamente per scongiurare ciò che è scritto nel Destino. Pensiamo a Edipo, indotto dalle circostanze a uccidere il Padre e a prenderne il posto a fianco della madre. Laio, il padre, dopo la nascita del suo primogenito lo aveva messo in un cesto e lo aveva spedito via. La precauzione non è servita e il destino si è comunque compiuto. Questo ci racconta il mito che secondo molti delinea in maniera poetica una struttura universale della mente. Secondo il pensiero di Freud tale struttura è ciò che sta dentro la storia evolutiva di ciascuno di noi. In Psicoanalisi si chiama Complesso di Edipo, o Complesso di Laio, secondo se sia guardato dal fronte delle paure filiali o da quelle paterne. Tutti comunque hanno la propria paura ma, riconoscendolo, ci sono strade per superarla. Tornando a Gavino Ledda, ha narrato che era il maschio primogenito di sei figli e che era il responsabile del matrimonio dei genitori. Gavino era stato concepito prima del matrimonio, in un potente momento di passione uscita fuori controllo, secondo quanto da lui immaginato. All’epoca, in Sardegna, un figlio illegittimo era uno scandalo inaccettabile. Il padre di Gavino dunque, a causa di questa creatura inaspettata ma esuberante nella sua voglia di vivere, è stato costretto da figlio ancora in gestazione a sposarsi e fare passi che gli hanno condizionato la vita. Forse questo dato, questo principio chiarisce perché proprio quel primogenito è stato oggetto di accanimento e di attaccamento, di odio e di amore: di amore, non lo omettiamo. Quel figlio così forte già prima della nascita doveva fare molta paura, al padre, che ha voluto domarlo e plasmarlo, limitando addirittura la sua istruzione per renderlo menomato e dipendente. Ma il figlio ha vinto comunque. Questa comunque è la paura non proprio peregrina del genitore nel versante arcaico, arcaico: la generazione successiva un giorno prenderà tutto, disporrà e comanderà a piacimento. Questa paura, legata a una visione primaria distorta dei legami d’amore, non è ancora superata ma è quella che, a tutt’oggi, vede ex mariti uccidere le madri dei loro figli e i figli stessi; è quella visione malata che vede fratelli maschi complici del proprio padre nell’uccidere un membro femminile giovane della famiglia solo perché ama e vuole accanto un uomo non scelto da loro. Il vincolo perverso e violento, nonostante tutto ciò che ci raccontiamo, è una pratica che resiste. Padre Padrone dunque non ha parlato della Sardegna, ma attraverso di essa piuttosto, e grazie alle sue astoriche suggestioni, ha parlato di aspetti dell’umanità. La recente proiezione del film Padre Padrone si è svolta a Roma, nella sala del Cinema Trevi, e all’interno della tradizionale rassegna del Cinema Sardo curata come sempre da Franca Farina per la Cineteca Nazionale. La rassegna di ottobre è nata in collaborazione con l’associazione Il Gremio, di cui è Presidente Antonio Maria Masia, con la FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) e con la Cineteca Sarda. Numerosi gli ospiti di spicco della serata tra cui Mario Masini, direttore della fotografia del film, Daniela Currò, Conservatrice della Cineteca Nazionale, e molti personaggi dello spettacolo oltre agli esperti di cinema tra cui Sergio Naitza, anche lui sardo critico cinematografico, direttore artistico del festival Lagunamovies di Grado, ideatore e curatore delle collane Sardegna Cinema e Registi di Sardegna usciti con L’Unione Sarda, per molti anni ha perseguito il progetto di riportare i fratelli Taviani nei luoghi storici del loro coraggioso film. L’idea era di rivisitazione e riscoperta dei significati di allora, ma anche di riconciliazione reciproca, dopo la tensione delle polemiche sarde. Da buon isolano, resistente a tutto e non facilmente abbattibile, Sergio Naitza ha affrontato vicissitudini pratiche e personali di ogni genere, tollerando ostacoli e frustrazioni anche profonde rispetto al suo sano progetto. Alla fine ha vinto lui, nonostante tutto, e l’idea è andata in porto, con soddisfazione e commozione di coloro che hanno potuto vederlo. Opportunamente dunque, dopo il film dei Taviani, la rassegna curata da Farina a completamento dello spirito riflessivo intorno a un’opera che ha fatto storia ha proposto la proiezione del bellissimo documentario Dalla quercia alla palma, Produzione sofferta di Naitza appunto, a quaranta anni dal premio di Cannes, ha raccolto aneddoti, memorie, confessioni, confidenze e dettagli inediti da coloro che, sprovveduti bambini di paese ma dai volti irripetibili, ingaggiati come comparse per poche lire, guardavano allora con paura al mondo del cinema piombato nelle loro strade, senza immaginarne le regole. Seppero poi di aver vinto un grande premio internazionale, La palma d’Oro, di cui sino ad allora non conoscevano neppure la portata. Tenero, onesto, rispettoso di tutti i sentimenti il documentario ha la capacità di parlare al cuore e di riflettere su quello che c’e’, nel bene e nel male, dietro la grande macchina nata con i Lumieres. Il documentario mostra anche, con rispetto, un Gavino Ledda invecchiato, provato e vincolato in un ritorno alle origini che lo rende attonito, – il Fato -, nonostante il percorso estremo di affrancamento e di vincita. La vita è questa. Nella scena conclusiva del documentario comunque, tutti, comparse, tecnici e i pochi attori professionisti, erano insieme intorno a un bel tavolo di campagna, all’ombra di querce maestose e anche loro, tra una memoria e l’altra, godevano molto sensualmente della intensa natura della Sardegna. Il loro godimento non funzionava però alla maniera di Zeheng Bo, il nostro raffinato orientale perverso, ma semplicemente nel sanissimo stile casareccio di chi, in lieta compagnia, sorride, ride e alza un calice di buon rosso sardo: vino contadino, corposo, forte, per brindare semplicemente alla bellezza. La possiamo chiamare: Enofilia?