di LUCIA BECCHERE
Nelle cerimonie ufficiali dell’antica Grecia il paraninfo, dal greco parà “accanto” e nymphe “sposa”, era colui che nel giorno delle nozze, dopo il banchetto, accompagnava su di un carro la coppia nuziale alla casa dello sposo di cui era in genere parente o amico. La versione al femminile del paraninfo era colei che assisteva la sposa fino a condurla al talamo nuziale e per estensione colui che si dava da fare per combinare matrimoni, il sensale di matrimoni, eufemismo di ruffiano e mezzano (sec XV).
Figura presente fino alla prima metà del novecento in tutta la Sardegna, oggi scomparsa e sconosciuta alle giovani generazioni, su paralimpu, paraninfu oparalimpiu, era latore di una richiesta di matrimonio da parte dell’uomo presso la famiglia della prescelta. Di tale ruolo veniva investito un parente autorevole oppure un estraneo che godeva di stima e rispetto. Il buon esito della missione dipendeva non solo dalla credibilità del pretendente ma anche dallo spessore del paraninfo la cui visita veniva annunciata e concordata precedentemente. Il tipo di accoglienza riservatagli dai padroni di casa lasciava intuire l’esito della missione. Il paraninfo avvertiva bene il peso del suo compito e per questo attingeva per tempo tutte le informazioni atte a garantire l’affidabilità dell’aspirante sposo. Ad accoglierlo erano i genitori e qualche parente importante della ragazza mentre gli altri componenti della famiglia si ritiravano lasciando che l’ospite si esprimesse in piena libertà. Raramente era presente la prescelta.
Il paraninfo esplicitava il motivo della sua visita, disquisiva su doti, virtù e mestieri dell’uomo ma anche sulla sua consistenza economica che avrebbe dovuto assicurare la tenuta di una nuova famiglia. Accolto con garbo e ascoltato con molta attenzione, su paralimpu veniva congedato con l’impegno che in un successivo incontro sarebbe venuto a conoscenza della decisione presa: s’aranzu (l’accoglimento) o sa curcufica (il rifiuto).
Decisione spesso non condivisa dalla stessa giovane – talvolta non conosceva il proprio pretendente – che veniva sapientemente guidata e indotta in una scelta dettata dal calcolo piuttosto che dal sentimento, con consigli e suggerimenti, se si vuole usare un eufemismo per attenuare l’asprezza dell’imposizione subita.
Chiamati a raccolta i parenti più rispettabili, prima di concordare il successivo incontro col paraninfo, «ca no sun cosas ki oje si fakene e cras s’isconzan », la famiglia della giovane valutava la moralità e la capacità di giudizio del pretendente, perché i beni e la bellezza «si bi sunu mezus » ma «si sa pessone no juket capu, sos benes torrana a nudda».
Tutto si svolgeva nella massima segretezza per evitare che in caso di curcufica, il pretendente divenisse oggetto di derisione e di scherno da parte di chicchessia. Non di rado un rifiuto provocava da parte del giovane respinto possibili ritorsioni nei confronti della famiglia della ragazza le cui proprietà diventavano facile bersaglio di atti vandalici come l’abbattimento di alberi o lo sradicamento delle vigne.
Se invece la risposta era affermativa il padre del giovane si presentava a casa della futura nuora per farsi garante di s’assicuronzu, cioè del patto sancito con la parola (sa paragula). Solo dopo s’intrada dello sposo nella casa di colei che sarebbe diventata la sua futura moglie, ad amici, parenti e conoscenti veniva annunciato l’avvenuto fidanzamento (amoronzu) fra i due giovani. La prima volta che veniva accolto nella nuova famiglia, il giovane veniva accompagnato dal padre, dai fratelli, dal padrino e spesso anche dagli zii. Tutti indistintamente onoravano la sposa con una busta contenente denaro. Durante gli incontri i due giovani non venivano mai lasciati soli per non incorrere in qualche irreparabile inconveniente. Questi preliminari variavano da paese a paese in quanto ogni comunità rispettava le proprie usanze. Infine era la mamma dello sposo, la suocera ( sa socra) ad essere ricevuta a casa della promessa sposa. Per lei veniva preparato s’ispiritu e s’ovu (la frollata) e servito nella tazza più preziosa quale segno di massimo riguardo e rispetto. In quell’occasione sa socra sigillava s’intrada (l’accoglimento) dello sposo con su donu alla nuora. Si trattava di un gioiello tipico del costume sardo o di un altro gioiello di valore, generalmente un anello che la suocera, in una sorta di investitura, infilava al dito della nuora che andava a sedersi vicino a lei per sancire l’appartenenza alla nuova famiglia. In seguito la suocera era solita donare altri oggetti: una preziosa spilla, una corniola, o un anello con impressa una chiave, simbolo della casa di cui la futura sposa ne sarebbe stata l’indiscussa padrona oppure un anello su cui poggiavano le forbici simbolo augurale contro l’invidia, le maldicenze e le malelingue. Su donu variava a seconda della situazione economica e del ceto sociale delle due famiglie, se agiate il dono poteva consistere in una parure di notevole valore mentre per i meno abbienti su donu si limitava ad un semplice capo di corredo.
Da questo momento in poi non si poteva più tornare indietro, pena una duradisamistade che avrebbe coinvolto tutto il parentado. In tempi brevi si concordavano i preparativi per il matrimonio, atto finale che sanciva un patto non scritto ma che con la sola paragula blindava l’impegno e l’onore delle due famiglie.
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/