di FRANCESCA MATTA
Si è conclusa a Macomer, nel centro Sardegna, la terza edizione del “Festival della Resilienza”. Progetto promosso dall’associazione ProPositivo, in collaborazione con partner locali e d’oltremare, che nasce da un’idea semplice: perché invece di sprecare il proprio preziosissimo tempo a lamentarsi che le cose non vanno, non provare a proporre e produrre un’alternativa di sviluppo sul proprio territorio? Detto, fatto. Nel giro di tre anni il festival ha raggiunto margini di crescita insperati, incuriosendo 1500 persone, tra eventi e laboratori, e generando un indotto economico di 25 mila euro solo nel 2017.
Eppure, dati alla mano, l’emergenza spopolamento in Sardegna, così come in altre aree d’Italia, è ancora una realtà tutt’altro che superata. Anzi, il 44% dei comuni presenti nell’isola rischia l’estinzione entro il 2050. È un po’ come se si fosse arrivati a un punto di non ritorno per cui l’unica soluzione è partire. Nel 2017 sono stati 112 mila i sardi che hanno fatto le valigie con un biglietto di sola andata verso mete europee o internazionali. Di questi il 23% sono giovani dai 18 ai 34 anni ai quali si aggiunge il 30% di nati all’estero sul totale degli emigrati (112.661), il che significa che si tornerà, se va bene, per le festività o durante il periodo di ferie. Un’iperbole della situazione in cui è costretta oggi l’Italia, con 5 milioni di residenti all’estero, di cui 38 mila hanno dai 25 ai 39 anni e tra loro il 28% è laureato.
Colpa della crisi? Anche, ma non solo. Ne è certo Luca Pirisi, 31 anni originario di Macomer, oggi ricercatore del Centro di Studi Assobiomedica (Confindustria) e cofondatore di ProPositivo. Nel suo paper “La sfida del rilancio socio-economico delle comunità della Sardegna: il caso-studio del Marghine”, racconta lo spopolamento della sua terra come un’opportunità, dove il locale stringe la mano all’emigrato, che partecipa al progetto di rinascita della comunità d’origine con competenze e contatti.Così nasce il “glocale”, che trae vantaggio dalla globalizzazione senza dimenticare le potenzialità del proprio territorio. Certo, la crisi c’è e si vede a occhio nudo. Anche a Macomer, specchio delle aree nostrane dove si produce il Made in Italy, è stato il fallimento dei settori trainanti dell’economia locale ad aver provocato la fuga degli abitanti: prima è crollato il primario con la filiera lattiera-casearia e le carni, poi è stata la volta del settore secondario col tessile, che ha spinto il Marghine nel programma di “Strategia nazionale per le aree interne”.
Colpa della crisi? Anche, ma non solo. Le chance di ripresa e crescita del territorio sono state mal gestite dagli stessi comuni. Se si guarda al sistema pubblico, ad esempio, l’Ue ha versato 63 milioni di euro per l’area in questione, ma soltanto il 53% sono stati effettivamente spesi
Lo studio di Pirisi, però, sottolinea come le chance di ripresa e crescita del territorio siano state mal gestite dagli stessi comuni. Se si guarda al sistema pubblico, ad esempio, l’Ue ha versato 63 milioni di euro per l’area in questione, ma tra il 2007 e il 2013 soltanto il 53% sono stati effettivamente spesi; allo stesso modo i 4,3 milioni di euro del progetto “Occupazione e mobilità dei lavoratori” non hanno avuto alcun riscontro positivo sulla crisi occupazionale perché l’offerta formativa non è stata delle migliori: spesso si trattava di organizzare dei corsi lingua inglese di base e di informatica, e nulla più. Ma c’è un altro elemento che stride con la crisi come unico elemento di stasi del territorio: il capitale privato. Nel 2014 i 10.310 contribuenti del Marghine hanno dichiarato più di 201 milioni di euro di reddito e il tessuto produttivo locale ha prodotto valore per 125.663,2 milioni di euro*. A ciò si aggiunge l’emergenza archeologica, con un monumento ogni 2 km in stato di abbandono e pochi siti visitabili in maniera organizzata.
Il “Festival della Resilienza” di Macomer nasce proprio per questo: colmare il gap tra la percezione della crisi e la realtà, attivando in loco nuove dinamiche relazionali e collaborative. Durante il festival si fa “brainsurfing”, un incontro tra riflessione dinamica (brainstorming) e ospitalità itinerante (couchsurfing), per cui tutti i partecipanti sono invitati a “surfare” sul territorio per scoprirne i luoghi, la storia, gli abitanti e le primizie. Si va dal turismo etnografico ai workshop, il teatro fisico ed emozionale, rendendo le persone e i cittadini protagonisti nel processo di ricerca, raccolta, elaborazione e diffusione di dati per sviluppare nuove strategie per la gestione dei flussi migratori verso la città. C’è la summer school, la residenza per artisti (da 10 a 70) e la street art che, insieme agli interventi realizzati nel 2016, ha lasciato in dote a Macomer 15 murales e la disponibilità di molti cittadini in vista di futuri interventi. C’è la rete, ampliatasi a sua volta con un maggiore coinvolgimento di partner (da 10 a 60), di cui la metà è rappresentato da associazioni, imprese e attività commerciali. Ci si scambia competenze e si attivano nuovi progetti, tra chi arriva sull’isola dal mare, e chi, in mezzo al mare, ci resta.