di GIOVANNI RUNCHINA
Dodici ore (e più) al giorno, a Boston, diviso tra i laboratori dell’Harvard Medical School (HMS) e il dipartimento di cardiologia del Brigham and Women’s Hospital (BWH), istituzioni di blasone ed efficienza mondiali grazie al contributo di medici e scienziati di fama globale. Cervelli provenienti da ogni angolo del pianeta, attirati da un’opportunità di crescita pressoché unica.
Tra questi c’è anche Andrea Sorrentino. Laurea triennale in Biologia a Cagliari, specialistica a Parma dove ha conseguito anche il dottorato di ricerca in Fisiopatologia cardiaca, il trentaquattrenne scienziato cagliaritano studia lo scompenso cardiaco e le condizioni che conducono a questa patologia: “Una disfunzione molto complessa che solo negli States riguarda sei milioni di persone all’anno ed è tra le principali cause di morte nel mondo occidentale. In particolare, mi so concentrando sugli effetti che lo stress ossidativo induce nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca. Lo scopo finale è trovare un nuovo meccanismo che porti a ridurre o proteggere il cuore dallo stress ossidativo e dunque sviluppare nuove terapie per curare le cardiomiopatie”. Passione trasmessagli dal professor Marcello Rota, suo primo mentore nei laboratori americani.
Il sogno è diventare docente e guidare un laboratorio. Obiettivo che persegue con passione, energia e anche mezzi di prim’ordine in un contesto ricco di stimoli umani e professionali. Elementi, questi ultimi, rari soprattutto in Italia “non è il Paese adatto se vuoi intraprendere questa carriera, gli investimenti e le risorse sono minimi, quasi nulli mentre qui ogni anno tra governo ed enti privati si riesce ad avere il necessario per fare una ricerca di buona qualità”.
A Boston Andrea è nell’équipe del professor Thomas Michel, docente di biochimica ad Harvard e clinico al Brigham e direttore del famoso Michel Lab: “Abbiamo ricercatori provenienti dall’Iran, Turchia, India e ovviamente USA – sottolinea – si tratta di un ambiente che promuove la diversità, come dovrebbe fare ogni laboratorio. La crescita umana che ne deriva è inestimabile”.
La sua storia è purtroppo comune a quella di tanti talenti italiani formati dal nostro Paese che hanno deciso di emigrare per ambizione e in misura spesso pari o superiore per costrizione. Questione di mezzi e di prospettive che fanno del ricercatore una figura chiave e non l’ultimo anello, magari sottopagato, di un sistema imbolsito.
Negli Stati Uniti dal 2012, “tutto è iniziato durante la fase finale del dottorato poi ho deciso di proseguire e stare qui a Boston per il mio post-doc”, Andrea ha trovato le condizioni ideali per dispiegare il suo talento. “Passione, curiosità, fondi sono le principali caratteristiche unitamente a un grande spirito di sacrificio. La mia giornata in laboratorio inizia, verso le 7:30, con i vari esperimenti da svolgere che solitamente termino verso le 18-19. Poi, mi dedico all’analisi dei risultati oppure alla revisione di altri studi per alcuni giornali scientifici. Ogni due giorni, dedichiamo la mattina al confronto e alla discussione dei risultati con i colleghi e il professore. Stress e competizione non mancano. Tuttavia non cambierei questo lavoro per nessun altro al mondo, dà soddisfazioni immense”.
Premi e riconoscimenti sinora non sono mancati: “Recentemente ho vinto il “Thomas W. Smith Fellowship for Heart Failure” che ha un particolare valore per me, soprattutto per il nome che porta. Il dottor Smith è stato uno dei più grandi clinici e ricercatori al Brigham e ad Harvard. Il suo contributo è stato incommensurabile, ma soprattutto è stato un grande esempio di perseveranza e amore per la ricerca. Mi piace anche ricordare la pubblicazione del primo lavoro nel 2013 su una rivista internazionale (Circulation) cui aggiungo anche il lavoro su Nature Communication del 2015, insieme al laboratorio del dottor Marcello Rota. Qualche mese fa inoltre mi sono aggiudicato i primi fondi per scoprire nuovi meccanismi che inducono alla cardiomiopatia diabetica”.
Il futuro? Per ora è ancora a Boston con una postilla dedicata all’Italia: “Dobbiamo cercare di far tesoro di tutte quelle persone che hanno passato anni all’estero e acquisito competenze importanti e mettergli a disposizione risorse per poter competere a livello internazionale. Il rientro di tanti professori o ricercatori può sviluppare networking tra le università del mondo e quelle italiane (soprattutto quella sarda) e dunque potrebbe dar vita ad un ambiente stimolante e competitivo per tutti. Il nostro Paese deve voltare pagina e aprire un nuovo capitolo per la ricerca”.