di ELEONORA DEGANO
Qualcuno lo chiama “il saggio delle grotte” ed è un po’ quella la sensazione, come di essere ricevuti nell’antro di un vecchio asceta, quando lo si incontra immobile sulle fredde pareti di un cunicolo buio. È il geotritone, un anfibio che già dal nome sembra uscito da un bestiario fantastico – complice il fatto che non ha polmoni e respira soprattutto dalla pelle – ma è più che reale. La sua casa sono gli ambienti umidi come le grotte carsiche, ma anche vecchie miniere abbandonate, ormai inattive, libere dalla rumorosa presenza umana e dunque perfette da colonizzare.
È proprio qui che lo incontriamo: siamo nella Sardegna Sud-occidentale e di fronte abbiamo il geotritone di Genè, Speleomantes genei, la specie che vive nell’area nota come Sulcis-iglesiente.
Se tra gli anfibi delle grotte molti conoscono il rosato proteo – che negli ambienti carsici si spinge fino ai 300 metri di profondità – questo abitante del mondo sotteraneo sardo è decisamente meno noto. L’isola ne ospita cinque specie, tutte endemiche, animaletti di una decina di centimetri o poco più: oltre a S. genei c’è il geotritone del Monte Albo, quello del Supramonte, il geotritone del Sarrabus e il geotritone imperiale, anche detto “odoroso”, per via dell’odore che emette, probabilmente a scopo difensivo, quando viene toccato.
Tutte le cinque specie sono a rischio di estinzione o quasi minacciate. Il geotritone di Genè è catalogato come vulnerabile, soprattutto a causa della degradazione dell’habitat, della deforestazione e dell’urbanizzazione. Nel suo caso, secondo la valutazione IUCN, un pericolo è anche quello di rimanere “chiuso in casa”: via che le miniere e le cave artificiali vengono dismesse – a oggi in Sardegna resta attiva solo Nuraxi Figus, ultimo avamposto di una storia di estrazioni – gli ingressi vengono sigillati e con essi i geotritoni e gli altri animali che abitano i cunicoli.
È stata proprio l’attività mineraria a modellare il paesaggio sardo nel territorio che fa da casa a questi anfibi così particolari. Siamo nel Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, membro della rete Geoparks dell’UNESCO (che oggi conta 140 siti), dove i geotritoni eleggono vecchie cave a nuova dimora mentre turisti nostrani e stranieri si appassionano a un tipo di turismo che molti sentono nominare per la prima volta: il geoturismo. Un approccio sostenibile al territorio per riscoprirne la storia geologica, che si intreccia con tradizioni e cultura locale.
C’è davvero un pubblico per la geodiversità e le storie raccontate dalla roccia, in mezzo a lecci e sughere? Pare di sì. Secondo i censimenti ISPRA in Italia ci sono circa 3 000 siti minerari dismessi. In cima alla lista c’è la Sicilia (765) seguita proprio dalla Sardegna (427) e dalla Toscana (416). Nel 2017 oltre 200 000 persone hanno visitato almeno uno dei 41 siti o parchi minerari che fanno parte della rete nazionale. 500 turisti al giorno, in tutta Italia, sono scesi nel sottosuolo o hanno visitato ecomusei minerari e vecchi impianti di lavorazione dei minerali.
La Sardegna fa parte della rete geoparchi UNESCO proprio grazie alla sua storia geologica unica, vecchia di oltre 500 milioni di anni. Con rocce metamorfiche, magmatiche e sedimentarie, le sequenze stratigrafiche dell’isola sono tra le più complete in Europa e annoverano porzioni di roccia che, agli occhi dei geologi, sono come un nitido racconto: la storia completa della Sardegna, fino a quando si è separata dal continente durante l’Oligocene-Miocene.
Una storia di roccia che ha segnato anche quella delle persone: nel 1938 nasceva Carbonia, costruita in appena 300 giorni, la città popolata con un appello del governo fascista agli italiani in cerca di lavoro. Poco prima della Seconda Guerra Mondiale avrebbe toccato i 30.000 abitanti, accorsi per lavorare nella miniera di Serbariu, oggi ecomuseo. I cunicoli sono stati messi in sicurezza e sono visitabili, per raccontare la vita di un minatore di allora: carrelli da svariati quintali da spingere a mano, rumori assordanti, polvere e armature – le strutture che sostengono le gallerie – alte meno di 1,60 metri, che costringevano a muoversi piegati o a volte strisciando. Ma anche una città simbolo del razionalismo archiettonico italiano, dove ogni famiglia legata alla miniera aveva una casa, un orto, acqua calda, una cucina (ovviamente a carbone), scuola, un cinema. Una vita con ritmi di lavoro inimmaginabili, ma nella quale, all’apparenza, non mancava nulla.
L’obiettivo dei Geoparks UNESCO è parallelo agli intenti della rete italiana REMI (Rete Nazionale dei Parchi e Musei Minerari italiani): trasformare le miniere dismesse in ecomusei, parchi e siti di attrazione turistico-culturale, ovvero un turismo ambientale sostenibile e responsabile che contribuisca allo sviluppo economico del territorio. Nel parco sardo la trasformazione, lenta, è già in corso.
A Rosas, dove nel 1832 fu scoperto il minerale rosasite, troviamo un museo geologico e molti macchinari usati nella lavorazione, ancora funzionanti. A Montevecchio, dove un tempo “correva” un giacimento di zinco e piombo di 12 chilometri, possiamo visitare la casa padronale con lampadari di Murano bagnati in oro zecchino, per poi scendere nelle gallerie dove le donne a fine ‘800 lavoravano otto ore al giorno con le mani nel fango, percorrendo chilometri e chilometri a piedi nudi, mentre i mariti si ammalavano lentamente di silicosi.
Lo sguardo si ferma su come la natura sta circondando lentamente quello che l’attività mineraria ha lasciato dietro di sè, nei 3.500 chilometri del geoparco. I geotritoni popolano gallerie dismesse attraverso l’intero parco geominerario. Sulle dune di Piscinas, nell’ex zona mineraria di Ingurtosu, un tempo i minerali venivano imbarcati dal pontile verso Marsiglia o il Nord Europa. Oggi tra i ginepri si aggirano i cervi sardo-corsi, protagonisti di un progetto di conservazione europeo che si è concluso a marzo, mentre la macchia mediterranea è interrotta da scheletri di archeologia industriale – molti mai recuperati o bonificati – come la laveria Brassey di Naracauli o la laveria Lamarmora di Nebida.
Oltre ai chilometri di gallerie abbandonate, ciò che l’epoca mineraria si è lasciata dietro è anche un importante bisogno di risanamento ambientale. Ne sono lo specchio i corsi d’acqua come il cosiddetto “fiume rosso” che scorre vicino a Montevecchio, uno dei fiumi che passano attraverso le miniere e affiorando in superficie portano con sè metalli pesanti come piombo e zinco. O le discariche, non di rifiuti ma di scarti minerari, come i “Fanghi rossi” di Monteponi: l’eredità delle attività metallurgiche della miniera, nella forma di una sorta di piccolo Grand Canyon rosso.
Nel luglio 2017 la rete REMI dell’ISPRA ha depositato una proposta di legge che riguarda per gestione e tutela tutti i siti nazionali, e che include l’approccio indicato dagli esperti nei casi in cui i siti minerari dismessi abbiano bisogno di bonifiche o di essere messi in sicurezza. Oltre che l’integrità delle strutture, si legge sulla proposta, ogni intervento deve garantire il più possibile il mantenimento di quanto resta delle miniere come le laverie e le discariche, lasciando riconoscibile e per quanto possibile intatto il “paesaggio minerario”. Fatto, per la Sardegna che oggi racconta il suo passato di estrazioni, di cunicoli abbandonati e ripopolati da piccoli anfibi, di gallerie che sfociano a strapiombo sul mare e di colline artificiali, ciò che resta degli scarti di un’industria del passato.
un angolo favoloso…