di LUCIA BECCHERE
Sono le lettere a consegnarci la Grazia Deledda più intima e più vera. In esse traspaiono tutte le sue fragilità ma anche il suo orgoglio e le sue ambizioni, il suo intuito e le sue doti comunicative che ne faranno di lei una donna singolare e moderna. Numerosissime quelle indirizzate a personaggi importanti, oltre centosettanta ad Angelo de Gubernatis insigne letterato dove traspare l’intento non tanto velato di promuovere i suoi romanzi. In esse scopriamo una donna fiera, gentile, saggia, caparbia, ambiziosa e maliziosa nel perseguire sogni e ambizioni prima fra tutte quella di assurgere alla gloria letteraria.
Nelle lettere d’amore scritte a Giovanni de Nava la scrittrice mette a nudo i suoi sentimenti più intimi, i palpiti nascosti che vanno ad infrangersi nelle rocce delle montagne che riconsegnano l’eco fra le pareti della sua stanza.
“La quercia e la rosa” è il titolo del libro di Ludovica de Nava, nipote di Giovanni dove raccoglie l’intima corrispondenza fra la Deledda e suo nonno. Autografe quelle di lei, ricostruite quelle di lui grazie ad appunti, racconti e poesie, raccontano la storia d’amore fra due giovani ventenni che sorretti dalla speranza di consegnarsi ad un futuro straordinariamente felice, vivevano una storia fuori dal comune legati da un sentimento sempre più appassionato e graffiante che tanto la farà sognare e soffrire consegnandoci do lei un ritratto umano e prezioso.
Erano tuttavia sogni destinati ad infrangersi con il susseguirsi degli eventi. A separarli sarà la lontananza, le rispettive famiglie che si frapponevano fra loro, il rapporto esclusivamente epistolare che niente aveva di fisico fa sì che tutto s’imprigionasse nelle maglie dell’immaginazione fino a che incomprensioni e menzogne consumeranno la fiducia reciproca.
Li accomunavano gli stessi ideali di gloria, l’amore per l’arte, l’attaccamento alla famiglia, alla terra d’appartenenza e la sofferenza per le misere condizioni del loro popolo. Lei si era lasciata coinvolgere dalle gentili espressioni di quel giovane affascinato dalla sapienza narrativa di lei e in cui trovava un po’ del suo carattere, lasciando che pian piano quel sentimento le scivolasse dentro le vene fino a travolgerla. Ma come un fiume in piena, dopo avere travolto ogni cosa, si ritira lasciando i segni dolorosi del suo passare, così il prorompente amore di quel giovane di cui ne avvertiva perfino il respiro, devasterà il suo animo con solchi amari e indelebili.
“Gentile, dolce, cara, mia cara” così Giovanni de Nava si rivolgeva a lei nelle sue lettere, dove il “tu” sostituiva ben presto il “lei” siglando l’evolversi di un rapporto che la giovane non tarderà a ricambiare.
Quel giovane poeta che pieno di ideali combatteva le ingiustizie, frequentava ambienti rivoluzionari e si prodigava per la sua terra devastata, era bramoso di lei. Questo l’affascinava e la travolgeva. In lei la certezza che quell’amore le avrebbe spalancato spazi sconfinati lontano dalla sua Nuoro che cominciava a sentire stretta. La preoccupava l’età di lui, quattro anni più giovane mentre il dubbio di non reggere al confronto di quel giovane bello ed elegante s’insinuava in lei come un tarlo. Ma in quel momento l’amore travolgeva tutto e non conosceva ostacoli superando ogni cosa.
Poi qualcosa cominciò a cambiare, le affinità si affievolivano scemando mentre lui si allontanava, lei se ne sentiva sempre più attratta.
La giovane scrittrice amava e soffriva fino a perdersi, lo implorava e lo supplicava, rifiutando l’evidenza trovava nell’illusione il conforto a tanta sofferenza, l’ansia la divorava mentre inseguiva desideri inappagati: vorrei!….vorrei!…e ancora vorrei…! Quel timido sentimento divenuto per lei amore diventava sempre più tiepido in lui che appariva distaccato e lontano fino a sentirsi infastidito dalle sue attenzioni. Questo la spingeva ad essere disinibita, quasi sfrontata. Si esponeva a lamenti e rimpianti, preghiere ed invocazioni alla ricerca di quell’amore che le stava sfuggendo e che avrebbe voluto eterno. Lei “esile fanciulla, quasi bambina” farà di lui il suo protettore, il suo sostegno, sicura che “quel diafano fiore della Sardegna” avrebbe potuto sognare all’ombra della giovane quercia di Calabria”. Da quì il titolo del libro “La quercia e la rosa”
Era una Deledda senza pregiudizi, tenace e orgogliosa, fiera e ambiziosa che aspirava ad un futuro di gloria, ma anche una fanciulla timida, sottomessa, obbediente e rispettosa che s’inchinava alle decisioni della famiglia a cui non osava ribellarsi. “Sono una che fa onore alla famiglia”, affermava più volte.
Attraverso la finestra aperta, evocati dalla fantasia, si offrivano a lei nuovi mondi dove amava piacevolmente perdersi. Troverà la forza di confessare che il suo sentimento si era rafforzato fino a diventare amore, lo scriverà nella lunga e appassionata lettera dell’8 luglio del 1894 quando per la prima volta oserà dire” Giovanni, io ti amo” e lui confermerà “Si Grazia, la nostra è passione” mentre la pace del tramonto e il risveglio del mattino facevano da cornice ai loro sentimenti trasportati da una misteriosa corrispondenza di pensieri solidi, sicuri che le profonde radici della rosa si sarebbero unite a quelle protettive della quercia all’ombra della quale quel fiore avrebbe perennemente fiorito.
Ma le famiglie si opponevano, la lontananza alimentava il distacco assottigliando il sostegno e l’amore che non trovava concretezza era destinato a sfiorire, a spegnersi. Lei avvertiva tutto questo, quel ponte fra loro altro non era che un sottile travicello sopra acque profonde e vertiginose che la facevano traballare fino a perdere l’equilibrio. In lei il desiderio si faceva sempre più incalzante e se in quella giovane fanciulla l’impeto avanzava, lui indietreggiava lasciandola smarrita e sommersa da mendaci giustificazioni. In lei si susseguivano penose suppliche e invocazioni alla ricerca delle vie più sorprendenti per arrivare a lui che si sentiva soffocato e distaccato. Era stato a Nuoro ma non aveva sentito il desiderio di incontrarla. “Il passato taceva” cancellando l’avvenire. La informerà dopo dell’avvenuto suo passaggio lasciandole l’amaro in bocca e il baratro si apriva davanti a lei che tanto aveva atteso quel momento. Sarà il sigillo della fine! Si sentirà ferita nel suo orgoglio di donna innamorata. Le giustificazioni di lui saranno tiepide e poco convincenti quanto inutili. Con fermezza lei chiederà la restituzione delle sue lettere, del ritratto che aveva donato a quel giovane a cui credeva di appartenere. Nessun seguito alle promesse di adempiere alla sue richieste. Non le riavrà mai!
Le due figure si materializzarono infine in quell’incontro avvenuto in una libreria di Cagliari, la mantella grigia che l’avvolgeva contribuirà a nascondere anche le sue ferite. Piccola e bruttina, gli occhi come spilli su di lui: bello, alto, giovane e prorompente. In quel momento si concretizzò l’impossibilità della loro unione.
Chiese ancora le sue lettere inchiodandolo con la forza dei suoi grandi occhi neri, troppo grandi per quella “piccola nana” quasi bambina mentre a lui apparve più piccola di come l’aveva pensata. La sua voce arrivò a lui profonda e severa, questo gli impose soggezione prima che attenzione. Ad un tratto il silenzio fu rotto da due voci che non si appartenevano più: “Siete voi, Giovanni”? “Grazia”? “Voi?” “Tu”? poi l’imbarazzo si unì al silenzio. Lei visibilmente scontrosa non si lasciò trasportare dalle parole di lui che in quell’istante scoprì diverso e con distacco porse la sua mano che lui fece cenno di sfiorare con le labbra.
Un uragano di sentimenti la travolse mentre una ciocca ribelle sfugge al suo controllo, sfiorò il collo infilandosi sotto il collo della sua camicia. Ora ogni parola era di troppo! Lui le fece dono della prima copia delle sue canzoni “ Passu cantadu”, lei lasciò scivolare nelle mani del giovane una scatola. Conteneva le lettere di lui. Con voce ferma e priva d’emozione chiese “Le mie”! Il suo sguardo si rabbuiò quando lui osò dire di averle dimenticate mentre in un ultimo tentativo di seduzione esprimeva la volontà di volerle tenere perché facente parte della sua vita.
Quell’ennesima bugia le creò ulteriore sofferenza. Non cedette, conscia che tutto lasciava poco spazio alla speranza e ancora meno allo scherzo. Solo un attimo di cedimento quando lui strinse fra le sue la sua piccola mano da bambina dicendo” mia cara amica”! La commozione di quell’attimo suggellò l’ennesima menzogna a cui lei finse di credergli per dignità avvertendo che mai fra loro ci sarebbe potuto essere spazio per l’amore. Tutto li separava.
Lei raccolse le proprie emozioni e con un atto di sottile civetteria femminile sistemò la sua ciocca ribelle. Si allontanò da lui dicendo quasi sottovoce: ” La rosa di Sardegna saluta la quercia di Calabria” mentre un timido sorriso scopriva una piccola fossetta sulla guancia di quella giovane, futuro Premio Nobel per la letteratura.
per gentile concessione de L’ORTOBENE