UN DRAMMA STORICO, UN PROBLEMA RIMOSSO, UNA POTENZIALE RISORSA: L’EMIGRAZIONE SARDA (prima parte)

di OMAR ONNIS

Prima parte di una riflessione sulla nostra diaspora, sia nei suoi sviluppi storici, sia nei suoi tratti costitutivi attuali, sia infine nelle prospettive che la riguardano, di per sé e in relazione con la Sardegna.

L’emigrazione sarda è un fenomeno totalmente contemporaneo. Contrariamente a quel che si pensa di solito, la Sardegna è stata prevalentemente una terra di immigrazione.

Non di massa, nessuna “invasione”, ma un costante apporto di singoli, famiglie, gruppi che da altre aree del Mediterraneo e d’Europa, per le ragioni più varie, si trasferivano sull’isola e vi mettevano radici.

Tra Otto e Novecento, nel periodo della grande transizione demografica, della seconda rivoluzione industriale, del colonialismo, al contrario dell’Italia e di altre regioni europee economicamente deboli, la Sardegna non conobbe un’emigrazione di massa. [1]

Qualche spirito avventuroso – specie dopo la crisi di fine anni Ottanta, primi anni Novanta dell’Ottocento, e poi ancora soprattutto ai primi del Novecento – lasciò l’isola per il Sud America (in particolare l’Argentina), ma si trattò di un fenomeno limitato.

La grande emigrazione dalla Sardegna è avvenuta in un lasso di tempo molto breve e molto circoscritto, nel secondo dopoguerra, in concomitanza con la militarizzazione dell’isola e col Piano di Rinascita.

In questo caso si parla di centinaia di migliaia di persone. Un esodo che controbilanciò, negativamente, la crescita demografica di quegli anni.

Le cause, i fattori e le dimensioni di questa emigrazione tarda ma drammatica andrebbero indagati per bene, senza filtri ideologici.

Fin qui purtroppo, nel dibattito pubblico, ha dominato la retorica della modernizzazione necessaria, dell’estrazione della Sardegna dalla sua arretratezza, delle tare ataviche congenite.

Prevalgono le visioni strumentali di una terra ancorata a usi e costumi ancestrali, estranea alla storia europea, bisognosa di essere finalmente catapultata nella contemporaneità.

Sono tutti costrutti mitologici tecnicizzati, beninteso, come ho scritto e argomentato a più riprese. Eppure hanno sempre un certo peso.

Il prevalere di questa lettura non ha consentito una diffusa e consapevole appropriazione del problema dell’emigrazione presso l’opinione pubblica sarda, compresa quella emigrata.

L’emigrazione di massa non fu ostacolata, a suo tempo, bensì incentivata, giustificata, presentata come inevitabile, in una terra così povera e senza risorse proprie.

Onestamente non so se dietro questo fenomeno ci sia stato un disegno, un piano. Studiando l’imposizione delle servitù militari, tra anni Cinquanta e Sessanta, e le scelte che presiedettero alla realizzazione del Piano di Rinascita industriale, qualche indizio in questo senso si presenta all’attenzione.

Tuttavia non c’è – a mia conoscenza – alcun documento, alcuna testimonianza verificata su una scelta politica precisa volta a indebolire demograficamente l’isola. Resta un’impressione.

Di fatto, nel quadro ideologico prevalente l’emigrazione di massa si presenta come un fenomeno quasi inesplicabile, a volte ricondotto a forza dentro cliché di comodo, a volte tenuto ai margini del discorso o addirittura rimosso.

Capita anche che venga presentato come un giusto prezzo da pagare alla modernizzazione e all’integrazione dell’isola nell’ambito italiano.

Tutto ciò non solo non spiega nulla, ma contribuisce alla confusione e al disconoscimento di un dramma storico che presenta ancora il suo conto e che per giunta non si è affatto concluso, come troppo frettolosamente si riteneva fino a una ventina d’anni fa.

La risposta dell’emigrazione sarda alle circostanze drammatiche in cui avvenne è stata l’organizzazione dei circoli e delle associazioni dei sardi. Una risposta sorprendentemente pronta ed efficace, bisogna dire.

La natura e la ragion d’essere dei circoli risiedeva nel mutuo soccorso, nella necessità di cooperazione e nel sostegno reciproco.

Da notare, di passaggio, l’evidenza con cui questo fenomeno smentisce il luogo comune dell’atavica divisione dei sardi e dell’individualismo come tratto culturale distintivo e invincibile.

L’emigrazione sarda, sia in Italia, sia altrove, ha precocemente trovato forme organizzative adatte alle sue necessità e ha da molto presto imparato a interagire col contesto in cui era inserita.

Più di recente, ha cominciato a diventare una sorta di testimonianza collettiva di valori, usi, simboli, beni di consumo ascritti alla nostra identità.

Qui, come vedremo, c’è un altro dei problemi che caratterizzano la nostra emigrazione.

Chi lasciava la Sardegna tra anni Cinquanta e anni Settanta del Novecento aveva un’idea molto vaga di sé, del proprio territorio, della propria storia. Le stesse giustificazioni che stavano alla base di una scelta così drammatica, al di là delle necessità materiali, erano condizionate da una percezione di sé piuttosto viziata.

Cosa pensavano infatti i sardi di sé nel secondo dopoguerra? Pensavano di essere una popolazione povera, arretrata, senza particolari meriti storici, bisognosa di aiuto e integrazione. Dell’isola si aveva un’idea molto parziale, solitamente limitata al proprio paese di provenienza e alle immediate vicinanze.

Il complesso di inferiorità era forte, innestato su una diversità linguistica che si tendeva a voler superare a tutti i costi, in una sensazione di estraneità a un mondo più grande, bello, ricco nel quale si anelava di essere accolti.

Tale complesso di inferiorità seguiva i sardi emigrati nei luoghi in cui infine trovavano sistemazione, li accompagnava nei loro rapporti con la popolazione residente e con gli altri migranti.

Niente di strano che trovassero conforto nella compagnia degli altri sardi. Era una necessità umana che andava oltre le questioni puramente pratiche e investiva le forme di socializzazione, gli usi alimentari, la comodità di comunicazione. Anche questo spiega la facilità con cui la nostra emigrazione si è organizzata.

Eppure le debolezze culturali, gli stereotipi debilitanti interiorizzati e una visione della Sardegna come terra povera, arcaica e senza storia sono rimasti un tratto distintivo di queste prime generazioni di emigrati.

Che hanno pagato caro il distacco traumatico, quasi repentino e definitivo.

I mezzi a disposizione per tenersi in contatto con l’isola sono stati a lungo pochi e insufficienti. Il legame per lo più si è reciso.

Per tanti, tra i primi sardi emigrati, la Sardegna ha finito per diventare un luogo più mitico che reale e, per chi poteva permetterselo, ma solo dopo anni, un luogo di vacanza.

Questo è un problema. Lo è ancora oggi.

Le forme organizzative della nostra emigrazione da tempo hanno visto scemare la loro primigenia funzione mutualistica (mai venuta del tutto a mancare, sia chiaro) e hanno acquisito tratti diversi, come accennavo più sopra.

Farsi veicolo di contenuti culturali o di promozione territoriale e turistica, però, non è facile per chi attinge a un immaginario colonizzato da esotismo, arcaicità, tradizione (più o meno autentica) e complessi di inferiorità.

Questo spiega la propensione delle associazioni sarde a insistere nella presentazione di sé e dell’isola in termini puramente folkloristici.

Lo stretto rapporto instaurato da tempo con la Regione Sardegna (con le competenze sull’emigrazione affidate all’Assessorato al lavoro) non ha cancellato queste modalità di interrelazione dei nostri emigrati col contesto di residenza, anzi li ha incentivati.

Le “feste dei sardi”, periodicamente organizzate nei vari centri dove si è concentrata la nostra diaspora, sono state e sono ancora prevalentemente l’occasione per fare sfoggio di cliché, di “costumi tradizionali” e di “prodotti tipici”.

Naturalmente a tutto ciò non ha mancato di sommarsi il mito della Brigata Sassari, specie laddove, in Italia, tale costrutto ideologico poteva inserirsi in una mitologia locale relativa alla Grande guerra.

Le proposte di natura più strettamente culturale – relative alla produzione intellettuale e artistica dell’isola – hanno sempre fatto fatica a ritagliarsi un posto nelle attività associative, anche se con gli anni sono aumentate di numero.

Magari non sempre anche di qualità.

Ma lì gioca un ruolo la cornice ideologica di partenza e la composizione anagrafica e sociale della compagine associativa.

Penso ad esempio ai circoli sorti dove c’è una forte presenza di militari sardi, o di appartenenti alle forze dell’ordine.

In alcuni casi tali componenti sono preponderanti sulle altre e condizionano il senso e la natura delle attività associative, specie dove non ci sia un apporto più dinamico e più giovane (come nei centri universitari).

È chiaro che anche questo aspetto ha un grande peso sulle attività promosse dai vari circoli.

Dove nelle associazioni c’è stato un ricambio generazionale e/o sociale, anche la visione della Sardegna promossa è mutata o è in fase di mutamento, sebbene non senza resistenze.

In ogni caso e in generale, pur tenendo conto di tutte le variabili, va detto che anche le esperienze più meritorie sono inserite in un contesto che comunque mostra da un po’ di anni i tratti dell’obsolescenza.

Anche nell’ambito geografico italiano, dove i rapporti con la Sardegna sono relativamente più facili.

Manca un collegamento strutturato e di ampio spettro con l’isola. Manca un coinvolgimento della nostra diaspora che non sia solamente strumentale o clientelare. Manca una coscienza diffusa sul fenomeno, sulle sue implicazioni sociali, culturali, economiche e politiche.

Manca in Sardegna e manca presso i nostri emigrati.

Sia chiaro, una grande organizzazione federativa come la FASI ha un patrimonio sociale e una storia non indifferenti. Vanno riconosciuti e giustamente tenuti presenti.

Eppure il fatto stesso che esista un’entità come la FASI è un paradosso a sua volta meritevole di ragionamento, prima di tutto da parte della nostra diaspora e della sua classe dirigente.

Se dopo decenni si sente ancora la necessità di mantenere in piedi forme organizzative dell’emigrazione sarda in Italia, sorge spontaneo il quesito circa le forme e gli esiti dell’integrazione dei nostri emigrati nel contesto di arrivo.

Sono quesiti e ragionamenti che spetterebbero innanzi tutto alla nostra emigrazione e alle sue sedi organizzative.

La mancata problematizzazione del fenomeno dell’emigrazione, la rinuncia ad analizzarlo, comprenderlo, contestualizzarlo storicamente e politicamente comporta conseguenze inevitabili.

Intanto si è creata una dialettica conflittuale tra i Sardi residenti sull’isola e quelli emigrati.

È come se gli uni disconoscessero gli altri. Si è creata una sorta di competizione – sciocca, assurda – sul quantitativo di sardità degli uni e degli altri, sul diritto di parola dei primi negli affari dei secondi e viceversa.

Esito in qualche misura comprensibile, ma dalle forme e dai contenuti davvero poveri e poco costruttivi.

Faccio due esempi concreti che possono far comprendere meglio l’entità e la natura di questa contrapposizione.

In tema di continuità territoriale – il diritto alla mobilità dei sardi in quanto cittadini italiani – le aspettative dei sardi residenti in Sardegna e dei sardi emigrati sembrano inconciliabili.

I primi vorrebbero che fosse garantito il diritto alla mobilità, sulla base della circostanza oggettiva di risiedere sull’isola, con sconti e agevolazioni ancorate a tale condizione di fatto.

Gli emigrati rivendicano un diritto allo spostamento da e per l’isola in quanto sardi.

Quest’ultima non è solo una rivendicazione di mera natura etnica, ma ha un suo senso concreto nel fatto che tanti emigrati sardi abbiano recuperato e mantengano un contatto con la Sardegna.

Contatto sia come terra ancestrale a cui si desidera tornare di tanto in tanto, sia come sede di interessi specifici.

Molti emigrati sardi hanno un domicilio in Sardegna, per via ereditaria, magari, o perché nel tempo, col conquistato benessere, qualcuno è riuscito a farsi la casa delle vacanze.

I due diritti alla mobilità si scontrano in quanto per i residenti sull’isola le tariffe agevolate devono valere solo per loro, mentre per gli emigrati tali agevolazioni devono valere per tutti.

La soluzione di estendere le tutele rivolte ai residenti in Sardegna anche ai “nativi” ha lo svantaggio di non contemplare le tante famiglie miste di cui magari solo un componente è sardo nativo.

Questo problema non è ancora stato risolto definitivamente, sia per l’oggettiva difficoltà del caso, sia per la pochezza con cui la classe politica sarda ha da sempre affrontato questo tema strategico.

Di sicuro, la politica sarda ha sempre mal visto le pretese della nostra emigrazione in merito, salvo occasionalmente fare promesse interessate per raggranellare qualche voto.

Un altro episodio di questo tenore ebbe luogo quando, giunta Soru governante, si era pensato di applicare una imposta sulle seconde case, un’imposizione fiscale che facesse cassa sul turismo stagionale.

In realtà la misura non era peregrina e rispondeva a problemi reali. Per esempio i costi che la presenza di un numero considerevolmente più alto di persone, concentrato in poche settimane, comporta per i nostri centri abitati, sia come consumi, sia come smaltimento dei rifiuti, ecc.

Alla nostra emigrazione tali misure erano apparse subito come ingiustamente punitive. Punitive contro sardi “come gli altri”. Che per lo più non avevano alcun interesse speculativo nella proprietà di una casa al mare, che serviva loro come sede delle proprie vacanze sull’isola.

La questione non fu affrontata bene da nessuno, in quella circostanza. Le misure fiscali vennero comunque meno.

Singolare comunque che il contenuto della rivendicazione di parità tra sardi di Sardegna e sardi emigrati fosse sostanzialmente – anche qui – di natura etnica.

Su queste ed altre tematiche non c’è stata né in Sardegna né nella nostra emigrazione alcuna riflessione che non fosse strumentale alle questioni materiali in sé e per sé considerate, con un grado di incomprensibilità reciproca a tratti mortificante.

L’obsolescenza delle forme organizzative della nostra emigrazione, la sua rinuncia a una riflessione profonda e onesta sulla propria storia, la propria condizione, il proprio ruolo attuale, si sommano, purtroppo, al terribile e colpevole ritardo della politica sarda nel voler farsi carico del tema emigrazione in tutti i suoi risvolti e significati attuali.

L’emigrazione sarda non è solo un fatto storico concluso, ma un fenomeno tutt’ora in corso.

Rimuoverne la comprensione dalle nostre esigenze strategiche, come se non avesse peso, come se non riguardasse la Sardegna, non è una buona idea.

Il contributo che la nostra emigrazione medesima dovrebbe dare è di gran lunga maggiore in termini quantitativi e migliore in termini qualitativi.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *