di SEBASTIANO CATTE
Nel corso della sua lunga e magnifica carriera Gianfranco Zola ha fatto parte a pieno titolo di quella ristretta cerchia di grandi calciatori che hanno saputo interpretare al meglio l’essenza più profonda del gioco del calcio, come arte dell’imprevedibilità. Non è un caso che in Inghilterra i suoi tifosi del Chelsea gli abbiano affibbiato, sin dalle prime apparizioni con la maglia dei blues, il nomignolo di “Magic box”, ovvero la scatola magica dalla quale, in qualsiasi momento della partita, lui era capace di estrarre una magia, una giocata impossibile per i comuni mortali ma che tutti hanno sempre sognato da bambini e magari tentato inutilmente di mettere in pratica nel cortile di casa. Anche per questo motivo Zola è sempre stato amato da tutti, non solo dai tifosi delle squadre per cui ha giocato, quale emblema di un calcio genuino, dispensatore generoso di allegria e di bellezza. Il leggendario Sir Alex Ferguson, manager e allenatore per oltre 20 anni del Manchester United, lo ha descritto nella sua autobiografia come uno dei più grandi calciatori italiani di sempre: “Era uno di quei giocatori che riusciva a restare imperturbabile rispetto all’avversario contro cui giocava. Aveva sempre un sorriso sul volto, e questo mi ha infastidito. Pensavo: come può divertirsi giocando contro lo United? Nessun altro lo fa. Ma era un giocatore fantastico e mi è piaciuto guardarlo. Era piacevole. Per me dire questo di un avversario vi mostra cosa penso di lui”. Uno splendido riconoscimento alla carriera, secondo forse al titolo di OBE (Order of the British Empire), la più alta onorificenza che la Regina possa conferire a uno straniero, l’equivalente del titolo di baronetto per i nati nel Regno Unito, conferitagli per essere stato ambasciatore come pochi altri di quei valori di lealtà e di rispetto che dovrebbero sempre ispirare la condotta sportiva.
Sono quei valori che anche da allenatore Zola ha sempre cercato di trasmettere a sua volta ai suoi figli e ai suoi allievi, con un chiaro e costante riferimento ai preziosi e sani insegnamenti ricevuti da ragazzo in Sardegna, soprattutto dalla sua famiglia. Proprio alla memoria di suo padre Ignazio, grande appassionato di calcio oltre che a lungo dirigente e presidente della squadra del suo paese – la Corrasi – dove ha mosso i primi passi da calciatore, Gianfranco ha voluto rendere un omaggio doveroso intitolandogli il torneo giovanile che organizza nella sua Oliena da cinque anni grazie all’apporto della sorella Silvia, di suo cugino Massimo Zola e della stessa Corrasi. Un torneo di qualità sempre molto elevata, quest’anno impreziosito dalla partecipazione di Nuorese, Cagliari, Napoli e Chelsea, tutte squadre nelle quali Gianfranco Zola ha militato lungo l’arco della sua carriera. Per la cronaca la vittoria è andata al Napoli, che si è imposto in finale sul Chelsea con il punteggio di 3-1. “Ma il risultato in questo caso conta fino a un certo punto” – ci tiene a sottolineare Gianfranco, che incontriamo in una pausa del torneo. “A me preme soprattutto vedere che i ragazzi si divertano nel rispetto delle regole, senza mai mancare ai sani principi di lealtà sportiva. Quelli di mio padre sono stati soprattutto insegnamenti di vita, di comportamento. Lezioni fondamentali che mi hanno fatto diventare quel che sono, mi hanno consentito di forgiare nel migliore dei modi il carattere e la mia personalità aiutandomi a superare le tante difficoltà che inevitabilmente ho dovuto affrontare nei campi di calcio e nella vita.”
A suo avviso il calcio può offrire senz’altro un contributo ancora maggiore dal punto di vista sociale ed educativo, grazie anche a iniziative come questa: “Stiamo parlando di uno sport molto competitivo e quindi gli spunti per far sì che i ragazzi possano migliorare ci sono ogni giorno. In ogni allenamento, in ogni partita si vengono a creare delle occasioni in cui il carattere viene testato, non solo da un punto di vista tecnico e fisico ma anche caratteriale, comportamentale: il calcio è quindi a tutti gli effetti (o almeno dovrebbe esserlo) una palestra di vita e uno strumento di vitale importanza per la crescita.
Il campione di Oliena ha potuto vivere da protagonista il calcio in due realtà significative come quella italiana e quella inglese e quindi è il testimone ideale per sottolineare i punti in comune e le diversità nell’approccio al calcio e allo sport più in generale: “Vero, stiamo parlando di mondi e culture molto diversi. Quello inglese è un popolo molto più lineare, razionale e pragmatico del nostro. Mentre noi ci basiamo molto di più sull’istinto e sulla creatività. Che, intendiamoci, sono aspetti di fondamentale importanza, ma che da soli non bastano. E queste differenze si riflettono anche nel modo in cui è strutturato il calcio giovanile: in Inghilterra fino ai 16-17 anni non ci sono campionati veri e propri ma tornei e partite amichevoli e in cui conta molto la programmazione. Devo aggiungere che noi diamo maggiore importanza alla tattica, forse in maniera eccessiva in un’età in cui il ragazzo andrebbe lasciato più libero di esprimersi secondo il proprio istinto. Ed enfatizzare una componente non è mai un vantaggio, ad esempio quando, come da noi, l’attenzione verso la tattica va a scapito della tecnica e di altri aspetti.”
Sono limiti che in un certo senso hanno a che vedere con lo stato di decadenza in cui versa il nostro calcio, una crisi ben simboleggiata dal fatto che per la prima volta dopo 60 anni siamo fuori dalla fase finale di un mondiale. Come uscirne? “Non è facile individuare delle soluzioni, è in primo luogo un problema di tipo organizzativo. Certo va benissimo affidare la nazionale a un allenatore molto bravo ed esperto come Roberto Mancini ma temo non sia sufficiente se il contesto rimane immutato. Il calcio giovanile e quello dilettantistico, che rimangono il polmone principale a mio avviso, andrebbero profondamente riorganizzati e rinnovati anche con l’innesto di forze giovani e davvero competenti: e questo è un processo che richiede necessariamente tempi lunghi e una seria programmazione.”