di GIOVANNI CONTU
Cose da dire, ne avrebbe avute tante, ci mancherebbe. Nella sua vastissima produzione, fra vignette e disegni, libri ed esposizioni durante i quarant’anni di attività in Sardegna ha raccontato, come si suol dire, vita, morte e miracoli – pagani – della nostra isola. Ancora adesso, nell’era tecnologica multimediale, per ricordare la sua figura esiste una pagina Facebook costantemente aggiornata; niente di meglio per diffondere ciò che lo ha reso noto al grande pubblico; l’immagine. Oggi cerchiamo di ripresentarlo ai più giovani attraverso la memoria della famiglia che, con il supporto della locale Società Operaia di Mutua Assistenza, sostiene le iniziative volte alla conoscenza dell’artista e dell’uomo. Con la moglie Franca D’Oca, nell’atmosfera di un pomeriggio invernale serramannese, parliamo del marito, compagno di vita e di questa ne ripercorriamo un pochino le tappe costituite da grandi soddisfazioni e come accade spesso, di intensa malinconia. Il loro è stato un matrimonio felice durato quarantotto anni, da cui sono arrivate due figlie e poi quattro nipoti. La prima infanzia e la giovinezza qui a Serramanna, poi la partenza alla volta del capoluogo lombardo.«Nei primi anni sessanta abitavamo a Milano – dice signora Franca D’Oca – città dove si lavorava per testate importanti, basti pensare al Bertoldo, e le possibilità di carriera sarebbero state decisamente vantaggiose. Tuttavia, la nostalgia, che logora lentamente, ci ha riportati in Sardegna considerata nella sua forma mitica piuttosto che in quella reale».
Varcare il confine delle coste sarde, nel tragitto di ritorno, produce un vero e proprio incantesimo che solleva il velo steso sulla vera differenza – quasi sempre traumatica – fra ciò che è e ciò che potrebbe essere della propria vita. «Il rientro a casa, ricco di speranza e di aspettative, è stato difficile – prosegue la signora Franca – tanto dal punto di vista sociale e professionale. Certo, la famiglia è comunque un punto di riferimento e ritrovarla è sempre un sollievo. In un progetto di vita, dover ricominciare è al contempo piuttosto lacerante. Le nostre radici sarde – sebbene io personalmente abbia origini siciliane – sono fortissime e l’accoglienza nei nostri confronti è stata assolutamente positiva, tanto dal punto di vista famigliare che culturale. Penso ad esempio al rapporto di Franco con gli altri intellettuali; Giovanni Lilliu, Pinuccio Sciola, Francesco Masala. Anche nel contesto strettamente professionale, i colleghi dell’Unione Sarda e gli editori – uno fra i tanti, ricordo Nicola Grauso – nei suoi confronti hanno dimostrato apprezzamento e disponibilità. Intorno a noi vi è stato un vero e proprio circolo formato da amici che condividevano la stessa passione. Penso ancora ad esempio alla proposta arrivata di Foiso Fois, direttore del Liceo Artistico privato, per un incarico da docente. Franco apprezzò il pensiero ma non si sentiva di comunicare con la parola e per questo, cortesemente declinò l’invito».
Parole da cui emerge tutto lo spessore di una personalità introversa. «Assolutamente si – conferma la moglie – introversa e diffidente, meticolosa fino alla pignoleria. Mostrarsi diciamo cosi, dal vivo, per lui era un ostacolo. In sua vece, parlavano le immagini, i disegni, il tratto della matita e i colori. Avrebbe voluto diventare un pittore; ci è riuscito, ma forse in modo diverso da come avrebbe voluto. Per lui uscire fuori era una sorta di paura, che lo ha accompagnato tutta la vita. Era mio marito e artisticamente un grande comunicatore; stargli vicino era complicato e allo stesso tempo gratificante».
La profonda contraddizione di tutti i grandi artisti.
Ho sempre molto apprezzato i disegni di Putzolu (che firmava semplicemente cosi) regolarmente pubblicati su “Il messagero sardo” che ricevevo in qualità di “emigrato sardo di cuore” !
Rammento anche il disegno apparso sull'”Informatore del lunedi”, datato 28 luglio 1975, a proposito della morte del pastore Putzulu (!) che voleva morrire ricco ! (Vi alludo nel mio libro “Sardegna, nel cuore”, Della Torre, 1977, purtroppo senza dare il nome dello vignettista).
Claude SCHMITT