di DARIO DESSI’
“Non si chiede ad un sofferente: ‘Di che paese sei e qual è la tua religione’?
Gli si dice: Tu soffri e tanto basta: Tu mi riguardi ed io ti allevierò”. Pasteur.
I veri sofferenti, però, provenienti dalle trincee italiane e i pochi sani, che ancora potevano essere considerati tali, venivano distribuiti a nord, a sud, a ovest, un po in tutti i settori di quel fronte interminabile.
Subito dopo le prime settimane di guerra le nuove tecniche di combattimento e certe nuove armi micidiali avevano in un certo qual senso colto impreparati i medici militari chiamati ad intervenire in condizioni impossibili al cospetto di soldati che presentavano una tipologia di ferite e di situazioni traumatiche, mai viste prima. Alcune ferite erano provocate da certe armi da taglio, che avevano una sagomatura particolare, creata ad arte in modo da produrre squarciature irreparabili nelle carni dei malcapitati. In altre i tessuti erano lacerati in profondità a causa dell’impatto con grosse schegge metalliche o con massi pesanti scaraventati tutt’attorno al momento dell’esplosione di proiettili dirompenti sparati da artiglierie di vario calibro.
I medici avevano poi a che fare con terribili ustioni provocate dalle altissime temperature raggiunte dopo l’esplosione dei proietti da bombarda o dal micidiale getto rovente dei lanciafiamme.
C’erano poi i casi disperati dei gravissimi danni recati all’apparato respiratorio dall’impiego dei prodotti chimici.
E infine erano frequenti i casi morbosi di setticemia, dovuti all’insufficiente igiene e degeneranti, il più delle volte, sino al punto di provocare il decesso del ferito.
A tutto questo c’era d’aggiungere l’impreparazione del personale medico e paramedico e la deficienza congenita dei mezzi di trasporto e del materiale occorrente per le medicazioni.
In tutto l’arco della guerra i soldati italiani feriti superarono il milione.
Trepalade Portegrandi – l’ospedaletto da campo N. 67.
Subito dopo la ritirata dal FronteIsontino, quell’ospedaletto era stato trasferito nel Basso Piave, a Trepalade di Portegrandi.
In quella struttura sanitaria ebbero cura e conforto i gloriosi eroi delle trincee di Caposile.
Dal caposaldo di Caposile i soldati feriti venivano portati a Portegrandi a bordo di chiatte o di altre imbarcazioni che risalivano il Taglio del Sile.
Tra i ricoverati c’era anche il Soldato LOI Pietro del 152° reggimento, nato a Sestu (CA) e morto il 26 giugno 1918 in quello stesso ospedaletto.
Negli anni 1915 e 1916, quando l’ospedaletto N.67 si trovava in prossimità del fronte sul CarsoIsontino, dove combatteva la Brigata Sassari, vi trovarono ricovero e morte i seguenti fanti sardi:
Soldato CHESSA Antonio 152° nato a Cheremule il 30 luglio 1915.
Soldato PODDESU Francesco 152° nato a Monastir e morto il 30 luglio 1915.
Soldato SABA Vincenzo 152° nato a Santadi e morto il 31 luglio 1915.
Caporal magg. LUTZU Sebastiano 152° nato a Bono e morto il 31 luglio 1915.
Soldato FARRIS Agostino 152° nato a Lodé e morto il 2 agosto 1915.
Caporale MANCA ANTONIO 152° nato a Pattada e morto il 6 agosto 1915.
Soldato FERCIA Erminio 151° nato a Cagliari e morto l’8 agosto 1915.
Soldato DECANDIA Agostino 152° nato a Tempio Pausania e morto il quindici dicembre 1915.
Soldato VARGIU Antonio 152° nato a Oliena e morto il 4 gennaio 1916.
Soldato PINNA Giovanni 152° nato a Santo Lussurgiu morto il 12 gennaio 1916.
Soldato URRACI Fortunato 152° nato a Gonnostramatza e morto il 14 febbraio1916
Soldato DESSI’ Giovanni 151° nato ad Armungia e morto il 12 maggio 1916.
Soldato CIREDDU Efisio 151° nato a San Vito e morto il 10 dicembre 1915.
Tutto era pronto e ben distribuito ma l’irruzione nemica maggiore in un settore che nel contiguo, la necessità di escludere da certe strade ogni traffico che non sia quello delle riserve da proiettare senza indugio ne é ostacolo nei punti più logori della fronte. Il repentino arrovesciarsi di certe situazioni aveva sconvolto la strategia della misericordia.
Quest’ ospedaletto che da mesi dormicchiava nel suo giardino gentilesco, guardato da divinità mutilate, e raramente apriva i suoi cancelli a quel che non fosse il malato vinto dalla insidia palustre, è oggi improvvisamente preso d’assalto dalle autoambulanze che riversano senza tregua nelle aiuole, nei viali, sulla gradinata di marmo istriano il loro carico dolorante.
Dentro le sale brulicano come i favi di un alveare insanguinato.
I letti e le brande si serrano di ora in ora, si toccano; i feriti si ritrovano a gomito a gomito a delirare come erano gomito a gomito nel combattere e queste tane del loro dolore non sono ormai più larghe ne più discoste delle tane di combattimento scavate tra pedale e pedale dei vigneti sotto la stazione di Fossalta.
L’aria è greve; il lezzo della strage viene appena placandosi tra gli odori forti dei medicamenti e un nuovo ingresso di carni martoriate rinnova nei sensi inaspriti la visione diretta della battaglia.
Vi è qui in quest’ ospedale brutto un gruppo di combattenti di un battaglione d’assalto il cui comandante – il capitano Abbondanza già ferito e decorato a Valbella – aveva giurato di arrivare al Piave.
Ferito per accidente prima della battaglia, si era legato il braccio destro al collo, l’aveva sostenuto con una tavoletta e si era lanciato così con un furore contenuto. Al Piave doveva giungere e giunse e poi scomparve.
Ora i suoi leoncelli sono qui feriti, piagati, indocili, smaniosi.
Un’infermiera torinese, piccola, rosea, alacre, mi dice le difficoltà di trattenerli:
Non ascoltano ragioni. Arrivano in ambulanza o in bicicletta, se la ferita lo permette; entrano trafelati, loquaci, con una certa aria aggressiva e una pretesa di far presto. Sono fanterie d’assalto; vorrebbero che ci fosse una chirurgia d’assalto.
Da una stanzetta che dà sul giardino viene un canto di quattro voci, un canto triste e convulso con degli acuti aspri come singhiozzi.
Come l’infermiera legge nei miei occhi l’interrogazione, mi dice premurosa: sono i suoi sardi; quattro della Sassari colpiti in pieno da una granata presso Capo D’argine.
Difficile che si salvino.
Non si poterono raccogliere subito e le piaghe incancreniscono.
Vennero ieri, li isolammo perché fossero più quieti. Eda ieri cantano. Cantano?
Si cantano per non gridare”. Da “Giornate sul Piave” di Ezio Maria Gray.