di Carlo Passera
Urla: «Identità e cultura!», perché Roberto Serra è intriso di sardità. Ama la sua terra, per questo vi è ritornato a fine 2012, senza più lasciarla: «Pensavo di rimanervi pochi mesi», c’era da sistemare la situazione del ristorante di Abbasanta che era stato fino a un decennio prima di papà Attilio (cuoco a sua volta, già al milanese Don Lisander negli anni Settanta, ndr), «poi l’avevamo dato in affitto ma andava male».
Ha abbandonato così una carriera al di fuori dell’isola che lo aveva visto protagonista con quello che considera il suo maestro, Bruno Barbieri al Villa del Quar («Mi ha insegnato la cottura perfetta delle carni, a profumare i piatti con le erbe… Era il periodo in cui puntavamo alla terza stella»), sous chef era Andrea Costantini, ora al Regina Adelaide a Garda Prima e dopo, tante altre esperienze: da Vissani, con Penati a Londra, in Svizzera a St.Moritz e Gstaad… Vita un po’ randagia interrotta, appunto, dal richiamo della sua terra. Ma non è pentito, Serra. Semmai, un po’ arrabbiato: «Che senso ha servire carne di Angus a Paulilatino (luogo di nascita della madre, peraltro, ndr)? C’è la razza Bruno sarda! Dovremmo comprare il pane pistoccu, invece delle baguette surgelate al supermercato. Le nostre erbe spontanee non hanno eguali, ma chi le usa?».
E via elencando le prelibatezze che molti hanno dimenticato: i legumi saporiti, il coniglio di Abbasanta, «la coratella di agnello e il fegato di vitella, che adoro», i tanti formaggi, o i funghi, come il cardarello, qui tra i più diffusi, in sardo si dice carduleu. E i pani: «Civraxiu, pistoccu, coccoi, carasau, zichi ladu…». I vini: «La mia cantina è composta al 95% da etichette sarde».
Come Roberto Petza, Serra è un resistente, di quelli che fanno “cucina eroica”, per mutuare la famosa espressione usata da Veronelli nel descrivere certi vignaioli ostinati e coraggiosi. Serra canta il suo Guilcer, o Guilcer, la subregione storica e geografica della Sardegna che deve il nome a un acronimo: Guilarze era il capoluogo di quella che nel XV secolo era il dipartimento Parte Cier Real. Guilarze, oggi Ghilarza, confina con Abbasanta, dove ha sede il Su Carduleu dello chef. Paulilatino è giusto 10 km più a Sud-Ovest. Siamo in ogni caso in una Sardegna terragna, lontana dalle onde e dai turisti: «Io non trascuro i piatti di mare, ma amo soprattutto quelli di terra, perché racconto questa realtà straordinaria che mi circonda».
E quindi razza Bruno sarda e coniglio, l’abbiamo già detto, ma anche «galletti, colombacci, pernici, cinghiali, agnelli, lepri… Tutto meno il tacchino. Pecore e agnelli qui sono come selvaggina, vivono allo stato brado. Io me ne rifornisco da grandi macellai, Raffaele Medde ad Abbasanta e Antonio Obinu a Paulilatino. Prendo l’agnello, lo disosso e l’arrotolo proprio come Vissani mi ha insegnato a fare. Il maialino, invece, lo massaggio col finocchietto selvatico…».
E’ anche un massaggio all’anima della Sardegna, perché sappia prendere piena coscienza di sé: «Quando ho iniziato qui al Su Carduleu, i clienti mi chiedevano robaccia. Calamari fritti e vino sfuso. Ho allora creato una rete, mi son messo a lavorare con colleghi e produttori locali, abbiamo fatto crescere poco a poco questa attività, che ora va bene. Ma io ho sempre paura di chi passa troppo tempo a lamentarsi non capisca. Dobbiamo piantarla di dire che non esiste più un’agricoltura, che non c’è più grano sardo, se poi continuiamo ad andare a mangiare in pizzeria e ordinare molluschi surgelati e patatine fritte industriali».
“Affidarsi ai suggerimenti dello chef vuol dire fare un tuffo nel passato: ogni piatto e ogni prodotto sono descritti con semplicità, indicandone storia e provenienza. Per iniziare, si possono assaporare il prosciutto affumicato di Aidomaggiore, il pecorino e la ricotta mustia di Sedilo e una variegata selezione di sottolio tra i quali i cardi selvatici e i pomodorini secchi”, raccontava Gilberto Arru nel recensire per la prima volta il Su Carduleu sulla Guida Identità Golose, poco dopo l’apertura. Oggi è ancora così. Il locale è stato rinnovato durante la pausa autunnale; ha un aspetto più elegante, ma rimane quello di sempre nella sostanza: l’atto d’amore di uno chef di talento, che ha scelto di cantare nei suoi piatti la tradizione, il prodotto, in definitiva la sua splendida terra.