di Maria Giacobbe
”La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessitá, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo, dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi a un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare. (…) Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo.(…) Tirare a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!” Quando nel 1938, Emilio Lussu dava alle stampe le sue lucidissime, preziose memorie di guerra, erano passati solo due decenni dalla fine di quella mattanza che, nel bel mezzo della civile Europa, durante quattro anni aveva massacrato milioni di esseri umani e costretto altri milioni a diventare assassini.
Ma già l’intrinseca inutilità e la bestialità di quel conflitto sembravano dimenticate (se mai dai responsabili erano state percepite) e le fabbriche d’armi non avevano smesso di produrre e di vendere. Evidentemente senza curarsi delle intenzioni dei committenti . Gli affari sono affari e le fabbriche, che siano d’armi o di pannolini per neonati, vendono manufatti non casi di coscienza. Allora come oggi. E allora come oggi, i loro ”persuasori più o meno occulti” parlavano di
”difesa”. Perché l’”aggressore” era (ed è invariabilmente) l’”altro”. E la difesa è per definizione legittima.
”È l’aratro che traccia il solco, è la spada che lo difende” si leggeva in neri caratteri cubitali sui muri delle città italiane in quel lontano 1938 in cui Emilio Lussu pubblicava il suo formidabile atto d’accusa contro la guerra, che però agli Italiani in Italia e ai Tedeschi in Germania era proibito leggere.
E mentre le grandi democrazie europee e mondiali trincerate dietro la decisione del ”non intervento” stavano a vedere, già da due anni Adolf Hitler e il suo volenteroso alleato italiano avevano iniziato nella penisola iberica le prove generali della capacità distruttiva e innovativa delle loro ”spade”. Un conflitto che in misura anche maggiore del precedente avrebbe più o meno direttamente e crudelmente coinvolto tutti i popoli della Terra si profilava all’orizzonte. L’aviazione, che durante la guerra alla quale Emilio Lussu aveva partecipato era appena ai suoi esordi ed era tutt’al più capace di gettare qualche bomba, o di raggiungere con nuvole di gas asfissianti limitate quantità di soldati e di civili nemici, ora stava dando più convincenti prove del suo potenziale di morte. Il 26 aprile del 1937, con un’azione dalla quale tutti gli aerei erano tornati illesi alle loro basi, la ”Legione Condor” dell’aviazione hitleriana era riuscita a lasciare morti e sepolti nelle macerie delle loro case i due terzi dei 5000 abitanti della città spagnola di Guernica.
Facile immaginare la soddisfazione e la fierezza di Adolf Hitler e dei suoi ufficiali per una così brillante prestazione, e facile immaginare l’invidiosa ammirazione del suo emulo italiano. E non è difficile immaginare quanti ricordi e rimpianti il successo della ”Legione Condor” abbia potuto destare in quel generale Leone che Emilio Lussu conobbe e così efficacemente descrive nelle sue memorie dell’Altipiano. Quei moderni, eleganti aviatori che tornavano illesi alle loro basi, allegri e splendidi come dopo una riuscita partita di caccia, erano ben più ammirevoli dei goffi, ignoranti fantaccini di venti anni prima, che si erano permessi di non amare la guerra e ai quali lui, il generale Leone che la guerra, la gloria e la patria le amava, aveva offerto l’invidiabile opportunità di morire da eroi. E invece, gli ingrati, era stato necessario costringerli
con l’arma in pugno a lasciare la trincea, perché eroicamente si lanciassero verso i cavalli di Frisia e le pallottole nemiche, tenendo in mano il fucile con la baionetta innestata e, stretto fra i denti, un coltello preferibilmente a manico fisso. Perché il coltello a manico fisso era, più di quello a serramanico, adatto al nobile compito di sgozzare l’avversario, se l’improbabile occasione se ne fosse offerta. Come il perspicace generale Leone aveva giustamente capito.
In uno degli ultimi capitoli del libro, il reggimento cui Emilio Lussu (appena promosso capitano) apparteneva, ”dopo mesi di trincea è da tre giorni a riposo in una retrovia. Ancora sotto il tiro delle artiglierie nemiche ma con la prospettiva di finire l’inverno nella pianura veneta. All’improvviso però al reggimento arriva l’ordine di prepararsi a tornare in trincea il
giorno dopo e – mentre gli ufficiali riuniti in mensa hanno col maggiore Melchiorri una civile e dotta discussione, sostenuta da numerose bottiglie, sul dovere d’ubbidienza cieca del soldato agli ordini dei superiori che non si sbagliano mai e non commettono mai errori” – fuori tra i soldati scoppia la rivolta.
Gettate le armi, i soldati escono in massa dagli accantonamenti e devastano tutto ciò che trovano sul loro cammino, gridando: ”Vogliamo il riposo! Abbasso la guerra! Basta con le trincee! Basta con le menzogne!”
Dopo molte ore la rivolta non è ancora domata ma il capitano Lussu è riuscito a far rientrare nell’ordine i suoi soldati, e il colonnello gli domanda:
” – Posso contare sulla sua compagnia, se le do l’ordine di salire in trincea, subito?
– Signor sí
– E posso contare sulla compagnia, se le do l’ordine di intervenire contro i sediziosi?-
– No, signor colonnello.- Il colonnello uscì. Di fuori il tumulto continuava.”
Un anno dopo la pubblicazione di Un anno sull’altipiano, la seconda guerra mondiale scoppiò anche ufficialmente: travolse l’Europa e coinvolse la maggior parte del mondo abitato, sbriciolò città intere, uccise bambini, donne, invalidi e vecchi sotto le macerie delle loro stesse case, seminò fame e odio, e trasformò in assassini milioni di uomini che non avevano scelto di diventarlo. La rivelazione delle mostruosità commesse nei campi di sterminio nazisti e le due bombe su Hiroshima e Nagasaki la conclusero con un orrore così grande che alcuni di noi poterono credere che con ciò il colmo fosse stato raggiunto. La spada si era trasformata in un tale inferno, che doveva essere finito per sempre il tempo in cui dei paesi che si consideravano civili affidavano alle armi la soluzione delle loro contese.
Ma come dopo l’autunno del 1918, quando i reduci dell’Altipiano credevano di aver combattuto l’ultima guerra della storia, dopo quell’agosto del 1945 anche le nostre speranze di superstiti vennero deluse.
Una guerra mondiale – secondo la definizione di Papa Francesco ”frammentata”, ma non per questo meno feroce – è in atto da decenni. In Medio Oriente, in Africa, in Asia e nel continente americano, muoiono ogni giorno sotto le rovine delle loro città e delle loro speranze migliaia di uomini e di donne, di bambini e di vecchi, di malati e di sani. E mentre le incomprensioni e le inimicizie che hanno provocato le ostilità aumentano, quelle rovine e quei morti dimostrano non
l’utilità ma l’efficienza delle spade che nazioni civili come la nostra, che operai amabili come nostro fratello, che imprenditori eleganti e puliti come nostro padre, che finanzieri gentili e generosi come nostro zio continuano a produrre e a mettere in vendita. Spade che noi volenti o nolenti paghiamo attraverso le nostre tasse, e delle quali politici molto informati e diplomatici raffinati ci spiegano la necessità. Necessità ben inteso per la nostra ”difesa”. La difesa della
”nostra Patria”, della ”nostra Civiltà”, dei ”nostri Valori, della ”nostra Cultura”, della ”nostra Identità”, dei ”nostri figli”… I figli degli altri non contano.
Anche l’atomica è definita da chi la possiede ”arma di difesa”. Oggi, mentre io scrivo due capi di Stato ugualmente megalomani e mentalmente infantili, si scambiano messaggi minacciosi, e agitano la loro spada atomica vantandone l’ineguagliata capacità di uccidere e dicendosi pronti a usarla… se necessario… per la difesa dei loro ”valori” ….