di Elvira Serra
Quando ha chiuso gli occhi per sempre, nel suo letto, intorno a lei c’erano la madre e il fratello; il padre lo aveva salutato prima. L’ultimo sguardo lo ha dedicato alla mamma, Salvatora, che ha pronunciato le parole più innaturali per un genitore — «Adesso vai, amore mio» — tenendo la sua mano stretta strettissima, perché non si sentisse sola e non avesse paura. Ma Patrizia Cocco, cinquant’anni da compiere il prossimo giugno, non aveva paura. Aveva deciso lei quando andarsene, nella sua casa di Nuoro, circondata dagli zii, dai cugini, dagli amici più stretti che le volevano bene e ai quali ha dato il tempo di raggiungerla da Roma, da Milano, da Firenze, da tutta la Sardegna, scegliendo proprio un sabato per ripetere quattro volte davanti ai medici che rinunciava alla ventilazione meccanica e chiedeva la sedazione palliativa profonda, in applicazione della legge sul testamento biologico. Sempre lei aveva deciso come farsi vestire, con un elegante abito nero e un cappellino con la veletta. Era bellissima.
Patrizia era diventata prigioniera di un corpo ormai estraneo e non poteva accettarlo, lei che la vita l’aveva presa a morsi fino a sei anni prima, quando viaggiava, usciva con le amiche, si prendeva cura di Bach, il suo barboncino bianco, guardava film romantici e si appassionava alle cause civili. Si era ammalata di Sla nel 2012 e sapeva a cosa sarebbe andata incontro, perché già due zii paterni erano stati sconfitti dalla sclerosi laterale amiotrofica. Tre anni fa, però, la malattia ha cominciato a galoppare: prima le mani che non si chiudevano più, poi la difficoltà a deglutire e a formulare frasi compiute, quindi la tracheotomia. Da lì in avanti, un anno e mezzo fa, è cominciata la non vita per una che aveva sempre visto il bicchiere mezzo pieno.
Giovedì 14 dicembre 2017, quando il Senato ha approvato in via definitiva la legge sul testamento biologico con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astensioni, Patrizia, che ormai da più di un anno comunicava solo grazie a un puntatore oculare, ha chiesto a Sebastian Cocco, cugino e avvocato, di aiutarla a fare quello che per lei non si poteva più rimandare. «Ci siamo attivati subito con il personale di rianimazione dell’ospedale di Nuoro, abbiamo parlato con anestesisti, palliativisti e medici. Sapevamo che la scelta di rifiutare le cure non poteva essere in alcun modo dettata da una forma depressiva», racconta Sebastian. Ma Patrizia non era depressa. «Era stanca, perché non era più vita quella, nonostante l’amore dei genitori e del fratello Pasquale, che si era dedicato totalmente a lei negli ultimi due anni lasciando pure il lavoro, e di tutti noi che le volevamo bene, e nonostante la dedizione delle infermiere che si sono alternate per accudirla. Si sentiva intrappolata», ricorda la cugina del cuore Alessandra Podda, che era con lei in casa sabato, assieme agli altri parenti, per quell’ultimo saluto condiviso.
Patrizia non sa di aver conquistato, suo malgrado, un primato: è la prima italiana ad aver sfruttato l’entrata in vigore della legge che dà legittimità alle «disposizioni anticipate di trattamento» e riconosce a «ogni persona capace di agire» il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario indicato dal medico. Lo scorso giugno aveva scritto anche a Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni, per capire gli scenari che le si aprivano nelle sue condizioni. Sebastian chiarisce: «Non ha mai messo in conto di andare in Svizzera, l’alternativa era ricorrere al Tribunale, come era avvenuto per Walter Piludu (l’ex presidente della Provincia di Cagliari che si era rivolto ai giudici per morire con dignità, il 3 novembre 2016; ndr). Ma già si stava parlando in Parlamento di testamento biologico e potevamo aspettare. Sabato, quando sono entrato nella sua stanza, prima che la sedassero, Patrizia mi ha ringraziato: un ringraziamento che non avrei mai voluto ricevere».
Al termine della processione amorevole di cugini e zii più stretti, mamma Salvatora ha onorato l’impegno preso con sua figlia da tempo. «Ti ricordi? Noi ci siamo fatte una promessa: di salutarci con il sorriso». Ha cercato dentro di sé il sorriso più difficile e bello e poi l’ha lasciata andare: «Adesso vai, amore mio».
Chissa che sofferenza….