di Sergio Portas
Alla fiera dell’artigianato di Milano in dieci giorni passano più visitatori di tutti gli attuali abitanti della Sardegna, neonati e centenari compresi, e sebbene si disperdano per i dieci padiglioni allestiti, per districarsi tra i cento paesi espositori, i 3250 artigiani che offrono qualcosa come 150.000 prodotti, serve una strategia per non lasciarsi schiacciare (non solo in senso figurato) da cotanti numeri. Io mi sono lasciato guidare dal suono delle launeddas, al padiglione due, Roberto Tangianu da Alghero e Peppino Bande da Sarule, come fakiri del secondo millennio, andavano ipnotizzando, con le loro nenie, una torma di visitatori, abbagliati dal suono misterioso delle canne del catalano a cui faceva bordone l’organetto del barbaricino. Questi gli ambasciatori dell’isola. Camicia di sparato bianco a “zughittu”, calzoni e corpetto rigorosamente neri. “Vengano signori e signore a fare un giro tra le molteplici professionalità che la Sardegna è in grado di offrire allo stupore di ognuno, i cui prodotti, per scelta di materiali, per la storia che sanno incarnare, per la bellezza che esprimono nella loro manifattura, sono unici e irriproducibili, tutti o quasi comparabili nella magica definizione dell’arte”. Artisti di vaglia i due (su You Tube per chi ancora non gli abbia sentiti dal vivo), due anni fa Roberto era a Parigi, alla sede dell’Unesco, insieme a Luigi Lai, il più grande suonatore vivente di launeddas, con loro Fabio Vargiolu, anche lui di San Vito nel Sàrrabus (per i continentali: vicino a Villasimius), la manifestazione: “ La Musique, la Culture, les Traditions d’une ile dans la Mediterranée: la Sardaigne”. Il tentativo è quello di far diventare il suono delle launeddas patrimonio universale, come lo è già il canto a tenore. Qui a Milano incantano, stregano, intrigano, sorprendono.
Non lontano da loro Silvia Murru, da Samassi (ma mi dice che ha studiato a Villacidro) offre i suoi bottoni di “gusto retrò” (vedi: www.latlantedeibottoni.com). Niente di particolarmente prezioso, anzi, tutti messi insieme usando vecchi dizionari scampati al macero, italiani, sardi e latini, vecchie enciclopedie per bambini, poi vetro e lega metallica anallergica. Sono collane, orecchini, gemelli in acciaio e bracciali, rigorosamente nominati: rovo, mente, memoria, coscienza, tempo…mitukeru, realizzato con un dizionario giapponese-italiano degli anni ’90 e un manuale di storia dell’arte degli anni ’80, viene via per 25 euro. Gli altri costano anche meno. Successo garantito, l’dea che sottende il tutto: recupero di vecchie parole e immagini che si rifiutano di sparire, che si compenetrano l’un l’altra con un gioco che sa mischiare fantasia ed ecologia per creare un oggetto unico, a prezzi non da strozzo.
Li venderà tutti. Belli anche i “Cocci” di Giuliana Collu (www.icoccidigiulianacollu.com, anche lei si può ammirarla all’opera su You Tube), originaria di Assemini, dove ceramisti e vasai hanno una consolidata tradizione, sa scegliere argille e smalti diversi per forgiare prodotti originali dal dna inconfondibilmente sardo. Scrive benissimo Tonino Cau: “…guardando e toccando i suoi oggetti si “vede” la Sardegna. Si vede nel colore degli smalti, che sanno di cielo e di mare, di fuoco, di carbone che ricorda le nostre miniere…si vedono simboli atavici che fanno immaginare popoli antichi che disegnano le grotte, guerrieri che vanno per mare…s’intuiscono persino grembi materni e corpi sinuosi…”. Anche Massimo Boi fa ceramiche d’arte, nato a Carbonia ora vive e ha negozio a Quartu Sant’Elena. Si autopresentava così alla fiera dell’Artigianato di Mogoro: “ Dal 1978 impasto e decoro argilla. Partendo dalla maiolica arrivo al Raku: le forme e i decori visionari la mia costante. Raku è non avere controllo sul risultato finale. Ogni pezzo è unico, e da ognuno ricevo preziosi nuovi stimoli”. I suoi oggetti brillano degli ossidi che li colorano, vetrosi di ossido di piombo e soda, ossido di stagno per ottenere il bianco,
ossido di rame per il verde, ossido di cobalto per il blu, per il color melanzana va l’ossido di manganese, il nitrato d’argento per ottenere effetti madreperlati dorati. Altra cosa sono le “povere”ciotole nere in argilla, le prime nate in sintonia con lo spirito zen con questa tecnica, per la cerimonia del tè dei giapponesi del XV° secolo. Altri tempi. Silvia Lai, cagliaritana, per i gioielli del suo laboratorio orafo usa quasi esclusivamente sughero e argento, elementi che più sardi non si può, “Argyròpheleps nesos” dicevano i Greci della Sardegna: l’isola dalle vene d’argento, per il sughero tutta l’alta Gallura, e a Tempio se ne fanno morbidi vestiti che paiono pelli d’animale. Più oro nei gioielli di Caterina Espa, laboratorio a Sant’Antioco, anche essa ci tiene a ribadire ognuno realizzato interamente a mano, fedi sarde finemente sbalzate, bottoni in filigrana con un cuore di granato rosso. A Dorgali sono stati capaci di usare la fine arte dell’oreficeria, di cui la città vanta tradizioni antiche, con l’altrettanta antica arte della coltelleria artigianale: nasce così “Coltellogioiello” (web: coltellogioiello.biz). Ivan Pira è qui con la sua signora, domani arriverà anche la figlia Alice che, dice la mamma, suona l’organetto che neanche Inoria Bande, ci tengono a farmi vedere da vicino i coltelli di loro produzione, tutt’altra cosa da i guspinesi o arburesi a cui sono abituato, né mi par di capire i loro coltelli siano adatti a scannare mufloni o cinghiali. Non oso chiederne i prezzi ma basta entrare nel loro sito e nel “negozio on line” per farsene una idea. Si va da una “Thurcalesa” classica, con manico in corno di muflone, lama da 12 centimetri in acciaio inox, anello in argento impreziosito dalla filigrana fatta a mano a “soli” 650 euro, a un modello “Mascaras”in corno di muflone di coppia con corbule in filigrana.
Lama in damasco con agemina in oro 18 ct. anello in argento con martellatura e filigrana oro. Anima in damasco con decorazioni: 2.500 euro. (stesso prezzo per una “Resorza ‘e Chintu”, l’antica leppa dorgalese). Dice il signor Pira che i suoi coltelli debbono durare tutta una vita, e vorrei vedere. Per immergermi in un’atmosfera più convenzionale faccio un salto dai fratelli Piccioni, coltellinai guspinesi. Finalmente un sano acciaio inossidabile piantato in legno di sughero, che scintilla come fosse stella di Natale. A impreziosire lo “stand” grandi foto delle dune di Piscinas, il tempio di Antas illuminato dalla luna, e poi Guspini che si presenta al mondo: la festa di Santa Maria, Birras, Arresojas, la Sagra del miele, le ultime tre tutte nella miniera fatata di Montevecchio. Pare che di come proceda la vendita di coltelli quest’anno non ci si possa lamentare. Del resto la loro è una clientela fatta crescere col lavoro di anni, che si muove all’interno di narrazioni centenarie, storie che raccontano di come la “guspinesa”, il celebre coltello a lama mozza sia nato proprio a Montevecchio, tra i lavoratori della miniera che vollero farla in barba ai proclami del capintesta di allora, Giovanni Giolitti, che si illudeva di porre fine alle dispute finite con accoltellamento e conseguenti spargimenti di sangue, vietando di portare addosso lame di una lunghezza prefissata. Vietati i coltelli lunghi trenta centimetri? E io te ne taglio la punta. E sarà vero che a Buggerru, primi del novecento, le mogli dei minatori che si recavano ai primi comizi “socialisti” di Giuseppe Cavallera cucissero loro le tasche dei calzoni, per impedire che gli “agenti sovversivi” facessero scivolare dentro i coltelli proibiti, con la possibilità di essere arrestati? Pare una favola nera, troppo bella per non essere vera. Rita Cossu continua la sua favola di jana ricamatrice, incurante della folla che sciama, usa la filigrana d’oro e d’argento anche per le sue “pipias de zappus, finiranno alla casa Museo del costume sardo a Pabillonis. Naturalmente la fiera è piena anche di “artigiani della natura”, di Gonnos (Gonnosfanadiga) ci sono i Foddi con il loro olio a “circuito chiuso”, i noccioli delle olive riutilizzati a concime degli ulivi, anche in quest’anno di magro raccolto e di conseguente balzo all’insù del prodotto finito. Giorgio Saba con la sua “Isola del miele”, oramai un decano della manifestazione, anche le sue api non vengono da una stagione fortunata, sempre in attesa che i contadini si convincano che l’uso dei nicotinoidi in agricoltura salverà forse il loro mais ma farà strage di api e anche di uccelli. Dava quattro anni di vita all’uomo, quel geniaccio di Einstein, qualora fossero scomparse dal mondo le api. Per scongiurare tale eventualità in Giappone si stanno già sperimentando dei “microdroni impollinatori”, veri e propri robot, giusto per allungare l’agonia dell’umanità. Dolci da tutta la Sardegna, quelli che espone Maria Franca Casula da Desulo ( Sa Mura de Arbore) me li mangerei tutti tanto sono invitanti. E pasta fresca, Rosanna Chironi di Santa Maria Navarrese non ha dubbi per presentarsi al “web”: www.culurgionis.com , e chi vuol capire capisca. Caprini e pecorini, a prezzi non proprio popolari, uno per tutti Francesco Salis, che ha azienda vitivinicola a Sant’Antioco con non so quante centinaia di pecore. E vino, Roberto Casula da Meanasardo vende un “Nolza”, da vitigni della zona collinare dove si erge un maestoso nuraghe qualdrilobato. Mi dice che nasce da tre diversi tipi di uva: cannonau, monica e bovale, colore rosso rubino che invecchiando tende all’arancio. Ne assaggio un bicchiere, ha un buon profumo con sentore di vaniglia e frutti di bosco. Tredici gradi e mezzo. Ne vorrebbe 8 euro a bottiglia, patteggiamo per 15 euro per tre campioni. Nell’etichetta una navicella nuragica in bronzo rinvenuta nei pressi del paese di Meana, in fondo scritto in piccolo quello che definirei un Haiku (poesia giapponese) sardo che suona così: “ S’omine cun su inu este in festa. Li ettidi a su coro s’allegria”.
Adoro le launeddas!!!La prima volta che le ho sentite A Tadasuni nel museo di Don Giovanni Dore. Una meraviglia. In seguito ho avuto il piacere do conoscere il Maestro Luigi Lai!!!