di Sergio Portas
Un pezzo di nostalgia rabbiosa. Di quelle che prendono ai sardi d’oltremare quando si vedono ancora più calpestati di quanto abbia già fatto il Destino che gli ha cacciati di casa, costretti a inventarsi un’altra lingua per sopravvivere, sempre a sognare un ritorno “a bidda”, quando ce ne saranno le condizioni…mai. Tutta colpa di Gianni De Candia che porta al Circolo culturale sardo di Milano il suo ponderoso (carta lucida, oltre 400 pagine): “Sardegna La Grande Diaspora” sottotitolo “Memorie e ricordi dei 40 anni della cooperativa Messaggero sardo (1974-2014)” (Carlo Delfino editore).
Cosa sia stato il “Messaggero sardo” per gli emigrati della nostra isola, non solo in continente italiano, ma e sopratutto belga, tedesco, olandese, francese, argentino, brasiliano, australiano e chi più ne ha più ne metta lui, è arduo da compendiare persino in una pagina di giornale. Oggi, in tempi di internet imperante, in cui persino l’uomo a capo del paese più potente del mondo si sveglia nottetempo per “twittare” video a carattere anti-islamico ai suoi 40 milioni ( avete letto bene: 40.000.000!) di “followers” (gente che lo segue anche quando dorme), il tutto in tempo reale, è difficile spiegare ai più giovani cosa rappresentasse, per una famiglia di Ozieri, di Serramanna, di Mores, sospinti dalla miseria lacerante che imperava nei loro poveri paesi ad emigrare all’estero, praticamente al buio, ad inseguire la luce soffusa di una speranza chiamata lavoro, pane quotidiano per i figli, l’arrivo mensile di quel giornale che odorava ancora di mirto e cardo selvatico. Misto a quello dell’inchiostro-petrolio delle rotative. In tempo di mondo in rete è sin facile farsene un’idea, l’onnipotente “motore di ricerca” di qualsiasi computer a richiesta di: “messaggero sardo” vi darà l’opportunità di sfogliarli tutti i numeri del giornale, dal 1969 al fatale 2014, l’anno della sua chiusura in forma cartacea. E quale altra forma se non quella avrebbe dovuto avere per gente che, spesso, non aveva in tasca che la licenza elementare, la cui lingua madre era il sardo della sua zona, gallurese o campidanese che fosse, i congiuntivi italiani sguscianti come lucertole agostane. Tocca leggere le lettere che i nostri connazionali scrivevano al giornale per farsi un’idea della lacerazione patita, la gran parte suonano così: “Caro Messaggero Sardo…E’ l’unico modo che ancora mi lega alle cose sarde e alla terra che tanto voglio bene. Sono 27 anni che vivo fuori dalla mia terra e la nostalgia mi rode…”( G. Pilloni, cagliaritano dal Brasile, gennaio 1982). Luglio dello stesso anno: “Caro Messaggero Sardo, da 23 anni sono emigrata in Francia, sono madre di nove figli, purtroppo abbandonata dal marito con tre figli che sono ancora studenti…” (Teresa Ghiani, Audun Le Tiebe, 57930-Francia). Il Messaggero è un amico a cui si dice tutto, a cui si ricorre per un aiuto di qualsiasi tipo, con richieste di consigli tra i più impensabili: Giorgio Farigu, emigrato di ritorno da Genova a Calasetta non riesce a comprarsi una bombola di gas: “…dai negozianti mi sono sentito rispondere che se non portavo loro una bombola vuota non mi avrebbero dato la bombola piena neanche se avessi pagato una caparra…Mi sono allora rivolto ai carabinieri…il subalterno…mi ha prestato una bombola vuota…E così il prossimo anno sarò di nuovo da capo perché devo restituire il vuoto al carabiniere”. A casa nostra, da Guspini babbo militare di carriera trasferito, con tutto il reggimento, a Verona, era il 1951, con mamma e tre figlioli dai sei anni (i miei) agli uno di mia sorella, il “Messaggero” lo ricordo da sempre, galeotta la rubrica di Salvatore Tola “Parlando in Poesia”. Per chi non ne avesse contezza è giusto rimarcare che i sardi sono anche poeti, cantano poesie da sempre, e il “poeta” del paese, quello riconosciuto tra i più bravi, godeva di un prestigio che neanche il possidente più ricco, benché l’altro fosse solo pastore di greggi. A Tola i sardi emigrati in mezzo mondo mandavano poesie, le più scritte in limba, ma anche in buon italiano, come pure faceva babbo Livio, che avrebbe ambito pure lui essere conosciuto per poeta piuttosto che per maresciallo. Tola le assemblava per temi, a cui dava un titolo, a gennaio dell’ 82 era “Cantare contro”, scrive lui: una vera rarità (per la poesia sarda) la quartina gallurese che esprime l’indifferenza dei sardi di fronte alle lotte tra i loro dominatori: “ Pà noi non v’ha middiori/ no importa cal’ha vintu/ sia Filippu imperadori/ sia Carralu quintu”. Ma anche queste bellissime rime di Salvatore Satta a proposito dell’eccidio di Buggerru: “ Noi coglieremo fiori di bufera/ lungo il sonante mare./ Li copriremo d’elce,/ li cingeremo di selvaggio ulivo,/ e con i fiori di sole. E primavera!”. A luglio dello stesso anno (l’82) per “Versi di tutti i giorni”, la prima in alto, la poesia di babbo: “Nuvole”: “ Tanti e tanti ricordi passano sulla nostra esistenza,/ come su un cielo d’autunno nuvole piccole e grandi/ alcune coi segni della tempesta/ altre come roseti nel sole…”. Non avete idea della gioia che procurava in famiglia il “vedersi pubblicato”, nel giornale che veniva spedito in tutto il mondo. Mi sono divertito a cercare di pescare altri “pesci” simili a questa: nel numero di agosto del ’79: “ Sardegna, tema prediletto”: scrive Tola: “…Giuseppe De Riu che vive in Belgio ci comunica ad esempio: Quando ci riuniamo in compagnia il tempo lo passiamo parlando della Sardegna e del nostro impossibile rientro…mentre Livio Portas, guspinese, scrive da Busto Arsizio (ancora dietro al reggimento n.d.r.): La nostra isola ha dato sostanza e memoria alla mia anima”. La poesia di babbo è a centro pagina: “Sardegna”: “D’acque e sassi che avean le labbra vivide/ sempre invasate da un grido di sole, mi fu data la vita./ Errravan livide figure d’olivastri e dove duole/ alla gracile terra, il greto riarso,/ gridavan sparsi ciottoli. Parole/ di cose, già imploravano, l’apparso/ d’anima ceruleo segno, come spole./ Ora tutto è luce in me; il pianto e il fischio/ del vento, sopra i fili, il lento fiume, / l’alba senza canzoni ed il nevischio,/ ed il nuraghe solenne come un nume…/ che l’attorto dolore del lentischio,/ portò con le sue pene anche il suo lume”. Gianni De Candia esordisce evocando lo scambio dello Stato italiano nel dopoguerra con quelli del nord Europa: loro ci davano carbone, noi uomini a scavare nelle loro miniere. Più di duecentomila sardi coinvolti nella “tratta”. Negli anni 40/50 quelli che non potevano pagarsi neanche un biglietto di terza classe tentavano la via della clandestinità, nascosti nelle stive dei transatlantici, come ci si avvicinava alla costa venivano buttati in mare, in quegli anni si contarono fino a 7.000 cadaveri sulle coste del Maine. Chi ce la faceva diventava cittadino americano. Nel 1971 stime ufficiali dicevano di 27.000 sardi in America, ma il dato è sicuramente sottostimato perché un numero analogo risiedeva solamente in Argentina.
In Italia, stesso periodo, i sardi emigrati erano 700.000. Di qui l’esigenza, anche della Regione Sardegna, di uno strumento di comunicazione che riuscisse a parlare loro, con contenuti che li riguardassero, non li facessero sentire in qualche modo persi per sempre. Allora la gente tornava a votare, i biglietti scontati in terza classe.Il libro parla di come sono nati i circoli, le leghe, le federazioni. Della durissima realtà che aspettava coloro a cui la sorte avesse scelto il Belgio, la Francia, il lager tedeschi usati come dormitori. Stupisce che nel manicomio di Cagliari su 1500 internati 1200 fossero emigrati di ritorno? Quando la cooperativa prese in mano il giornale in Sardegna c’era Rovelli che controllava sia La “Nuova” che l’”Unione”, De Candia lavorava all’Ansa e tutti gli altri collaboratori erano iscritti all’albo dei giornalisti, avevano uno stipendio, era il ’74: “Proviamo a vedere se riusciamo a durare due anni, siamo andati avanti sino al 2010”. Sette dei collaboratori sono diventati direttori dell’”Unione “.
La storia del giornale si dipana fino al raggiungimento di una tiratura di 75.000 copie. Tra le difficoltà da superare vi è naturalmente la gestione di un così lungo elenco di indirizzi. Un giornale di servizio vero, senza connotazione politica, se non quella attinente ai temi che si imponevano: le esigenze delle persone, pensioni, sussidi per i figli, colonie estive. Vi scrissero grandi firme del giornalismo sardo, una per tutte: Franciscu Masala, che non riusciva a trovare spazio nei giornali della Sir di Nino Rovelli. La parte più coinvolgente del libro è quella che riguarda i numerosi viaggi fatti da De Candia quando, magari a seguito di una visita ufficiale dei politici sardi, si recava all’estero e incontrava, nei circoli, i nostri connazionali. Ognuna delle loro vite meriterebbe un libro, alcune narrano successi impensabili, le più sono di tristezze inenarrabili. Maria Manca, da Tresnuraghes all’Argentina, madre di Martino Mastinu, detto “El Tano”, prelevato il 7 luglio del’76 e fatto sparire dagli squadroni della morte della Giunta militare. E’ diventata una delle “Madri de Plaza de Mayo”. E’ di oggi la notizia che, dopo cinque anni di udienze, si è chiuso a Buenos Aires il processo per alcuni dei responsabili di quelle morti: per 29 dei 54 imputati ci sarà da scontare l’ergastolo. Dice giustamente nella prefazione Manlio Brigaglia, altro storico collaboratore del giornale: è un racconto che non si legge e non si chiude senza commozione.