di Federica Cabras
Da ragazzino è molto curioso. Chi era stato in prigione, aveva dei tatuaggi. Lui brama dalla voglia di scoprire come si facciano, è molto affascinato. Ha persino provato a farsene uno grattando la pelle e mettendo un po’ di inchiostro sopra. L’unico inchiostro che si presta a questo tipo di esperimenti è quello dei rapidografi, quello da disegno tecnico. La china o Rotring.
Ecco come si imprime il primo disegno sulla sua pelle. «A mano, ovviamente. Era nascosto, perché i miei genitori si sarebbero arrabbiati. Era bruttissimo. Raffigurava un pugnale indiano, il kriss. Poi l’avevo coperto con il profilo di una donna lupo, bruttissimo anche quello. Per colori, all’epoca usavo quei barattolini che si usano per colorare la pittura, che poi sono colori ad acqua quindi non sono particolarmente tossici. Certo, le norme igieniche non erano delle migliori,» ride «infatti quando sento di tutte le accortezze per i pigmenti mi ricordo di questi esperimenti. Se poi si pensa a come si facevano i tatuaggi in carcere! Per il rosso usavano la polvere di mattone, raschiata e mischiata all’acqua. Per il nero, facevano il nero fumo. Bruciavano la plastica, il nero che rimaneva veniva raschiato e usato, sempre mescolato con acqua. Tutto questo me lo raccontò un mio amico di Genova.»
La prima macchinetta, la costruisce in modo rudimentale. «L’ho trovata recentemente. Faceva il suo lavoro, ma era molto lenta. Molto diversa da quella che uso ora: ha un sistema a cartucce, non ha l’ago classico. Si tratta di un sistema ultramoderno, molto veloce. Per fare un lavoro complesso, prima dovevo montare quattro o cinque macchinette. Ora mi basta una.»
Ma parliamo della partenza a Roma, della nascita dello Studio. «Sono partito per curiosità,» racconta il villagrandese «perché volevo scoprire nuovi mondi. Mi annoiavo a Villagrande. Eravamo nell’87.» Fa dapprima il pastore con lo zio, poi si rende conto che è un mestiere faticoso. A quel punto torna a scuola, si diploma. «Volevo cambiare la mia situazione lavorativa.» Per qualche anno, fa il geometra. Negli anni ’90, la compagna gli dice che a Roma c’è una fiera di tatuaggi. Non si lascia sfuggire l’occasione, va a vedere. «Non mi sembrò nemmeno vero. Lì ho scoperto un mondo: non sapevo si potesse fare di mestiere. C’erano professionisti, attrezzature particolari. Non c’erano corsi per diventare tatuatori, quando ho iniziato io. Era un lavoro non legiferato, quindi era anche difficile aprire uno Studio.»
Nel 1995, il salto: si licenzia da geometra e apre lo Studio. Certo, fatica un po’ per le autorizzazioni, inoltre tutti cercano di dissuaderlo – a quell’epoca, non era considerato un lavoro –, ma lui non molla. Questa è la sua passione e ha intenzione di seguire i suoi sogni.
«Sono andato a chiedere qualche informazione alla ASL di Pomezia. Io volevo farlo bene, essere regolare. Mi dissero che mi serviva un attestato come Estetica. Per più di un anno mi sono presentato lì regolarmente, volevo capire cosa dovessi fare. Mi sono informato, ho letto tante leggi, ho preso appunti. La dottoressa che c’era, vedendo che comunque avevo raccolto tutte le informazioni esistenti sull’argomento, mi ha dato le autorizzazioni.»
Il percorso non è in discesa. Ancora la cultura del tatuaggio non si è diffusa fra tutti. Si lavora poco. «All’epoca tutti mi guardavano male. Era ancora una novità. Qualche lavoretto riuscivo a farlo, ma non bastava per tirare avanti. Avevo investito dei soldi, ero rimasto senza più nulla.» Quindi, decide di dividersi tra lo Studio e un altro lavoro. Le patenti gli permettono di trovare presto un lavoro come autista.
«D’estate in studio il lavoro aumentava un poco, ma il contesto sociale non era dei migliori. Si lavorava perlopiù con delinquenti, gli unici a desiderare un tatuaggio e ad avere i soldi per pagarlo. Non facevano una piega quando scoprivano il prezzo di un lavoro.
Nel 1998 esce una legge del Ministero della Sanità. I tatuatori sono inquadrati sia a livello commerciale (diventano artigiani) che a livello sanitario. Vengono resi obbligatori corsi igienico sanitari. Il mondo del tatuaggio in quegli anni era molto diverso da quello che si conosce ora.
«Internet non c’era, quindi bisognava disegnare senza troppi spunti. Le macchinette non erano quelle che si conoscono ora. Oggi, ad esempio, l’ago si trova pronto, allora bisognava costruirlo. Parlo dell’ago da linea, da un minimo di 1 a un massimo di 18. Ti dovevi ingegnare, costruire delle dime artigianali per il raggruppamento dell’ago e saldarlo con acido decapante. Era pure tossico. La mia domenica era questa: saldare aghi tutto il giorno, per poter lavorare tranquillo la settimana successiva. Riuscivo a fare il minimo indispensabile, perché era comunque un lungo lavoro.»
Sono trucchi, racconta, che gli insegna a suo tempo un tatuatore milanese a Tortolì. I piccoli segreti per iniziare nel mestiere. «I tempi cambiano, trovi tutto pronto. Prima dovevo stare un paio d’ore in studio, dopo la giornata di lavoro, a sterilizzare tutto. Poi hanno fatto l’ingresso in commercio gli aghi sterili, sono cambiate le macchinette, i colori. Tutto è più facile, più accessibile.»
Oggi, si lamenta Antonio, tutti possono improvvisare questo mestiere. Fai un corso di 90 ore – dice –, l’iscrizione alla Camera di Commercio, e apri uno Studio. Poi a rimetterci le penne sono i clienti, perché con 90 ore di corso non puoi imparare a fare il tatuatore, sono troppo poche.
«Quando ho iniziato io, avrei davvero desiderato che qualcuno mi prendesse a bottega per imparare i trucchi del mestiere. Ma i pochi che c’erano sembravano degli alchimisti, nessuno svelava i propri segreti. Le gelosie fioccavano e il motto era “più tieni nascosto il tuo lavoro, meglio è”. Le attrezzature, poi, non erano così facili da reperire. C’erano tre rivenditori in tutta l’Italia. Veniva chiesta la partita Iva. Adesso tutti possono procurarsi tutto senza problemi, tramite Internet.»
Comunque, dal primo giorno nel nuovo Studio, sono passati più di vent’anni. La scommessa l’ha vinta, lavora alla grande.
«Oggi si lavora, e anche molto. Mi sono fatto un nome. C’è molta concorrenza, è vero, ma, quando sei conosciuto, le cose non possono andare male.» Da sedici anni ha un allievo, in arte Paolo (Pavlo Capoeira). «Ha superato il maestro!» dice, orgoglioso. Mostra alcuni dei lavori che fanno, sono spettacolari. Entrambi sono specializzati in un determinato ramo, così da poter far fronte a ogni richiesta. Decine e decine di scatti che sono arte pura. Sta organizzando anche qualche tattoo convention – anche conosciuti come fiere dei tatuaggi. Ne ha fatte tante, nel corso del tempo. Negli ultimi anni, a causa di forze maggiori, ha dovuto rallentare un po’, ma il nuovo anno si prospetta ricco di iniziative e di idee.
«I tattoo convention, oltre all’opportunità di lavorare, ti permettono di conoscere molta gente, di vedere posti nuovi! Certi anni, andavo persino a dieci fiere, ne facevo una al mese.» Comunque, conclude, se non c’è la passione, è difficile. È un lavoro di concentrazione, fatto anche di lunghe progettazioni – che lui fa la notte, lontano dagli stimoli esterni. Lui ha vinto la sua sfida.