di Massimiliano Perlato
L’ultima volta che ho intervistato Claudia Sarritzu, girava l’isola presentando il suo libro sulla crisi economica: “La Sardegna è un’altra cosa”. Da circa due anni su Globalist invece racconta l’orrore della violenza contro le donne.
Cosa ti ha spinto a occuparti di questo tema?
Quando sono arrivata a Globalist mi sono ritrovata in un sito specializzato in intelligence. Sono dovuta crescere molto in fretta. Abbandonare una concezione ristretta che avevo di giornalismo per tuffarmi in un’avventura molto più grande di me. L’Isis come Califfato, non solo come gruppo terroristico, sembrava invincibile, Era il 2014. Usa e Russia non si decidevano a intervenire e i jihadisti conquistavano Siria, Iraq, Libia, tentavano di arrivare in Egitto. Gli unici che sul campo cercavano di fermare la lucida follia di al Baghadi erano i curdi. Uomini e donne. Mi sono appassionata alle combattenti Ypg e ho sposato la loro causa che andava oltre la naturale volontà di sconfiggere Daesh. Volevano smantellare un modello culturale che le vedeva sottomesse- non solo in quanto curde -quindi facenti parte di una nazione ma prive di uno Stato, ma in quanto donne. Ho maturato che scrivendo di loro avrei, nel mio piccolissimo, scritto di tutte le donne oppresse ma che avevano il coraggio di reagire. Quanto sono belle le donne che lottano? Poi ho allargato lo sguardo sull’Occidente e sono atterrata alla cronaca nazionale: una donna ammazzata ogni tre giorni da un uomo che diceva di amarle. Un orrore che non volevo ignorare. Nonostante abbia sempre detestato la cronaca nera.
E’ una sfida molto ardua. Ci vorrà tantissimo tempo prima di cambiare la mentalità patriarcale. Scrivendo della violenza contro le donne come credi di contribuire a un cambiamento profondo dentro la nostra società?
Non mi sono limitata e non mi limito a scriverne. Non basta elencare le donne uccise o stuprate o maltrattate. Per prima cosa insieme al mio direttore Gianni Cipriani abbiamo deciso di seguire delle semplici regole di buon senso e buon gusto nell’affrontare le tematiche della violenza di genere. Siamo intervenuti nel linguaggio dei media. E’ la lingua che fa una cultura ed è da qui che bisogna partire. Troppe immagini volgari e ammiccanti, troppi articoli che giustificano il carnefice e dimenticano la vittima. Non posso dilungarmi ma vi farò alcuni esempi: la scelta delle foto, titoli non offensivi per chi ha già subito un abuso, evitare di raccontare dettagli che possono ledere la dignità della donna (come raccontare la modalità dello stupro per filo e per segno). Abbiamo ripulito i nostri pezzi da tutta quella morbosità che c’è in giro. Questa è la mia piccola rivoluzione che vorrei che tante colleghe seguissero. Se ancora una grande fetta della popolazione crede che una donna violentata o molestata se l’è cercata la responsabilità è anche di chi divulga (tv e giornali compresi) questi messaggi medioevali e pericolosi.
L’educazione è il punto di partenza. Stai andando nelle scuole?
Sì, ma in verità sono io a propormi, non ci sono veri e propri inviti da parte dei docenti. Alcuni sono molto collaborativi però, e questo è davvero gratificante per chi come me crede tantissimo nel potere dell’educazione quando si tratta di rispetto (e non solo tra uomo e donna). C’è invece un aspetto che vorrei segnalarvi perché a me ha fatto parecchio riflettere. Le mie esperienze sono esclusivamente nelle scuole superiori (forse dovremmo iniziare nelle scuole medie), dove la maggior parte degli studenti ormai ha una forma mentis già plasmata. Infatti le prime classi- fino ai 16 anni- le riscontro molto più sensibili all’argomento e desiderose di liberarsi di pregiudizi e stereotipi. I 18enni invece appaiono più restii, quasi spaventati. Le ragazze non intervengono durante i dibattiti, testa china sul telefonino (disinteressate o impaurita, chi sa?) e i maschi invece prendono la parola per difendersi come se si sentissero attaccati in blocco come genere. La cosa mi intristisce. Perché credo che forse stiamo sbagliando anche noi, gli uomini non devono sentirsi condannati a prescindere. Non servono spaccature, bisogna vincere insieme la violenza. Ma ripeto: i ragazzi più piccoli mi stanno dando tante soddisfazioni e ottimismo per il futuro.
Ti consideri una femminista?
Anni fa, era il periodo di Se non ora quando, ricordo che partecipai a una riunione sindacale dove mi scontrai con delle femministe che avevano fatto il ’68. Mi dissociai, dissi che non ero femminista come fosse una brutta parola. Avevo 24 anni, ero molto giovane e feci un grave errore di valutazione. Il femminismo in cui mi ritrovo io oggi, è quello del 2017. Abbiamo istanze diverse e una coscienza differente. Poi io credo nella costruzione di una società con pari diritti e dignità tra i sessi attraverso una collaborazione tra uomini e donne. Cosa intendo? Il maltrattante in carcere non deve solo pagare ma deve fare un percorso di recupero e reinserimento nella società. Se stupri o picchi una donna, dopo 5 anni massimo sei fuori e se non è previsto nelle carceri la figura di un tutor che si preoccupa della tua educazione, tornerai a reiterare il reato e a rovinare la vita di altre donne. C’è un femminismo che non contempla il ruolo dell’uomo nella nostra emancipazione. Io invece credo che ci libereremo della cultura maschilista quando convinceremo i maschi che la nostra libertà non è una minaccia per loro. Bisogna prendere per mano le nostre figlie ma anche i nostri figli in questo lungo e faticoso percorso, se no creeremo l’effetto che ho raccontato sopra e cioè ragazzi che si sentono attaccati in quanto uomini e che odieranno ancora di più le donne in quanto donne.
La Sardegna è matriarcale?
Non sono una sociologa né una storica. So per certo però che la Sardegna arcaica che ancora qualcuno immagina non esiste più. La nostra economia è globalizzata e ormai anche la nostra cultura. Il ruolo centrale della donna sarda si è perso nel momento in cui le fabbriche hanno spazzato via la pastorizia. I numeri poi confermano che i femminicidi avvengono anche qui, come gli stupri e i maltrattamenti in famiglia.
Ti manca scrivere della Sardegna?
La Sardegna sta nel mondo e io è il mondo che voglio imparare a raccontare per raccontare meglio anche la mia terra. Smettiamola di parlarci addosso. Sapere per cosa lottano le donne curde serve anche alle donne sarde.