di Tonino Oppes
Ho conosciuto Albino Bernardini, nei primi anni Settanta, grazie alla televisione. Tanti ricordi mi legano al maestro di Pietralata, che ho avuto il piacere di frequentare a lungo negli ultimi venti anni della sua vita.
Eppure non posso dimenticare quella prima immagine, in bianco e nero, offertami dalla TV. Lo rivedo ancora: magro e spilungone, maglione a collo alto e giacca a quadri, spostarsi da un banco all’altro, parlare con i suoi alunni come se fossero tanti nipoti, pronti ad ascoltare unu contu de foghile. Sicuro e coinvolgente, sempre desideroso di dialogare con tutti i bambini della classe, nessuno escluso.
A lungo, per me e, credo, per molti della mia generazione, è stato un personaggio televisivo. E’ entrato nelle case di milioni di italiani e, sarà anche per questo, che in tanti lo abbiamo indicato come maestro ideale.
Per questo, parlare e scrivere di lui, a poco più di due anni dalla scomparsa, avvenuta nel 2015, all’età di 98 anni, è per me come fare un viaggio nella memoria, tornare agli anni dell’infanzia e a quelli, pieni di speranza.
Ricordo le mie scuole elementari e i miei compagni.
Eravamo figli di operai, artigiani, commercianti, pastori, contadini, zonorateris che vivevano alla giornata, zappando nelle vigne o tagliando il fieno nei campi: la maggior parte poveri, qualcuno aveva le scarpe rotte, forse le aveva avute in eredità dal fratello maggiore, quelle scarpe avevano già protetto altri piedi.
Chi ha più di 50 anni sa che cosa vuol dire avere un paio di scarpe. Nei nostri paesi, per molti, erano un lusso: c’era chi ne aveva solo un paio. I genitori, soprattutto le madri, che avevano fatto sacrifici per comprarle direttamente dal calzolaio, erano prodighi di ammonimenti: “stai attento a non rovinarle, servono per la messa della domenica e per quando devi andare a scuola”.
La scuola era un luogo privilegiato, in cui, attraverso l’apprendimento, si gettavano le basi per un futuro migliore e ci si preparava alla socializzazione; dove l’insegnante era una figura che contava a volte più del padre e della madre.
Il maestro era una figura mitica.
Severo, cultura sconfinata, almeno secondo noi piccoli, autorità indiscussa.
Io ho avuto per cinque anni la stessa insegnante.
Adele Iannucci era donna buona, dolce e allo stesso tempo molto preparata, rispettosa di tutti: mai un suo alunno è finito in ginocchio sul sale o sui ceci, mai ha picchiato qualcuno con le bacchette.
In classe non eravamo tutti uguali: c’era chi si impegnava, chi non aveva proprio voglia di studiare. C’erano anche da noi bambini che preferivano le campagne, la caccia alle lucertole o ai tordi, alle chiuse aule dove si annoiavano, indifferenti alla storia e alla grammatica, tantu a ite selvit s’iscola? C’erano anche bambini che dormicchiavano sugli ultimi banchi perché avevano lavorato con i padri fino a tardi.
Quei bambini, erano maghi della meccanica e, a furia di frequentare le officine dei genitori, sapevano usare la fresa e la morsa; altri sapevano mungere le pecore come pastori provetti. Mostravano d’essere più grandi di quelli della loro età, ma non avrebbero mai avuto un quaderno in ordine, imparato una frazione, o fatto le addizioni rispettando la quadrettatura del foglio. Di solito, si consideravano, irrecuperabili, non portati allo studio.
Chi restava indietro, era perduto e una bocciatura era un marchio. Forse andavano solo stimolati.
La scuola richiedeva una motivazione molto forte. Chi proseguiva sapeva che la sua vita sarebbe migliorata, rispetto a quella del padre, e che l’affrancamento sociale passava proprio per lo studio.
Aveva ragione Emilio Lussu quando diceva, parlando all’Assemblea Costituente, che la Sardegna sarebbe stata migliore se nelle case ci fossero stati più libri e meno bottiglie di filu ‘e ferru.
La pedagogia doveva essere popolare considerato il tessuto sociale di provenienza dei bambini ai quali, però, si impediva subito di esprimersi in limba, l’unica che conoscevano, e gli inciampi con la lingua italiana suscitavano non poca ilarità; si insegnava “la grande storia” trascurando completamente quella regionale: si soffocavano, qui, come altrove, i temi dell’identità. Sapevamo alcune cose di Giulio Cesare, di Napoleone e di Garibaldi, ma ignoravamo la storia dei nuraghi dove andavamo a giocare la sera, dopo aver finito i compiti. Io che pure conoscevo chi era Ampsicora, giusto perché la via in cui ero nato portava il nome dell’eroe sardo che osò sfidare Roma, non sapevo perché un terreno, dove pascolavano le pecore di un mio cugino, si chiamasse sa tanca de sas animas: la cosa mi spaventava perché mi faceva pensare alla presenza delle anime dei morti senza pace.
Più tardi ho scoperto che in quel terreno c’era una tomba dei giganti.
Allora l’archeologia non era materia per la nostra scuola. Eppure era tutto accanto alle nostre abitazioni, alle nostre periferie. Bastava uno sguardo, una piccola spiegazione. Ma si trascurava il mondo nel quale vivevamo.
La storia dei nostri paesi, così come quella della nostra regione, era storia di periferia, non meritava attenzioni. L’abbiamo imparata più tardi, cercando risposte alle nostre domande, prima di frequentare l’Università.
Lo studio come mezzo per affrancarsi, per migliorare la condizione sociale è rappresentato anche dall’epopea della tivù in bianco e nero.
Allora c’era una sola televisione e non esisteva il telecomando. La possedevano in pochi. Solo ad ascoltarla e a guardarla con attenzione si imparavano tante cose, anche a leggere e a scrivere perché allora, come adesso, “Non è mai troppo tardi”.
Questo era anche il titolo di una trasmissione che resta una pietra miliare nella storia della televisione che conta. Indimenticabile l’opera del maestro Alberto Manzi, il maestro dell’etere che, dal 1959 al 1968, ha insegnato a leggere e a scrivere almeno a un milione di italiani. Gente che non sapeva mettere la propria firma in un documento o nel libretto della pensione, ma aveva voglia di imparare e di migliorare. Anche per questo molti anziani guardavano la televisione.
Pure allora c’erano i quiz; si vincevano somme importanti, non molti soldi rispetto ad oggi, ma vinceva chi sapeva rispondere a domande sulla storia, sulla musica, sul teatro. Per vincere, allora, bisognava essere preparati.
La tivù, in quegli anni, aveva una funzione pedagogica.
Ne sono la dimostrazione anche i primi sceneggiati che hanno fatto conoscere agli italiani scrittori come Cronin, Victor Hugo, Stevenson, Bacchelli e lo stesso Bernardini.
La scuola era quella di sempre, metodi educativi rigidi e programmi che spesso trascuravano i veri interessi dei bambini. Coinvolgerli non era certo facile.
Eppure, proprio mentre nell’isola, sia pure lentamente, si radicava la televisione e si gettavano i semi per i progetti di Rinascita, la Sardegna diventava terreno di cambiamento anche grazie a maestri di frontiera comeAlbino Bernardiniche, dice Rodari, “insegnò in una fra le terre più primitive del nostro paese, la Barbagia, lasciandoci, parole ancora di Rodari, una testimonianza viva di una nuova storia”.
Storia della pedagogia vera, quella praticata, non solo predicata, della didattica viva, della cultura popolare non mitizzata.
A Lula, a Bitti, Bernardini ha conosciuto una Sardegna che, negli anni Cinquanta esisteva in altri paesi, dagli stazzi della Gallura ai villaggi del Gerrei: una Sardegna povera, che faticosamente cercava di ridurre le distanze con il resto del Paese.
Dai racconti degli insegnanti di allora si possono stampare tante foto in bianco e nero di quegli anni.
I cambiamenti erano lenti, la scuola, quella dei bambini andava ancora più piano. Quanti nostri compagni dicevano che non avrebbero studiato perché avevano la strada già tracciata? “Non studio perché debbo lavorare in officina con mio zio o fare il pastore con babbo e nonno”, allora i mestieri si ereditavano. Il lavoro era sostanza, lo studio un investimento per il futuro che, però, appariva molto lontano. Non tutti potevano aspettare.
Per chi si muoveva tra le cose concrete, e doveva fare i conti con i bisogni quotidiani, l’ istruzione era spesso vista come perdita di tempo, un insieme di nozioni che non avrebbero salvato il gregge dagli incendi, dagli abigeatari o dalla malattia. Ma c’erano anche insegnanti coinvolgenti, che non avevano paura di portare la scuola nel campo aperto.
ComeAlbino Bernardiniche ha fatto didattica provando sulla sua pelle fallimenti e cadute, provando e riprovando, cercando soluzioni. Facendo emergere, attraverso la comunicazione, quelle piccole pepite di intelligenza che si trovano in tutti i ragazzini e che hanno solo bisogno di essere cercate.
Guai se un uomo non si gettasse con tutto se stesso nell’insegnamento. E’ un impegno civile, che significa lottare, come ha più volte sottolineato Bernardini, contro vecchi schemi che, a volte, spengono entusiasmi e sopprimono germogli di ricchezze inesplorate.
Il lavoro a Pietralata, con “ la marmaglia “, cosi chiamavano gli altri maestri quei bambini rifiutati da altri, affinò l’esperienza di Bernardini che, come educatore, mise alla prova le sue idee in “una fucina pedagogica”, il termine è suo, quale dovrebbe essere la scuola moderna.
Un’esperienza fondamentale raccontata nel libro Un anno a Pietralata da cui è stato tratto il Diario di un maestro, lo sceneggiato televisivo che la Rai ha trasmesso in quattro puntate, nel 1973, con la regia di Vittorio De Seta.
Ha scritto molto Albino Bernardini, ma è grazie alla Tv che è riuscito a lasciare un’impronta indelebile, con la sua fede civile nell’insegnamento che lo ha accompagnato per tutta la vita, con uno sguardo sempre rivolto ai piccoli, offrendo il suo sapere senza condizioni.
E ora?
Non so quale lezione ideale avrebbe fatto il maestro Albino agli alunni di oggi. Però so cosa non avrebbe fatto perché ricordo bene il titolo di uno dei suoi ultimi libri, dedicato ai nipoti: “ Nonno perché non ci sgridi mai?’’.
Lui, insomma, era tutto l’opposto del maestro picchiadito che qualcuno ha, forse, incontrato nel suo cammino di scolaro.
a foto, che ritrae il Maestro Albino Bernardini e i suoi piccoli allievi, è esaustiva. E il ricordo ritratto, a sua volta, da Tonino Oppes lo accompagna, con medesimo sguardo, complice, vivo e sorridente.