TRAVOLTI DALLA FURIA DEL TERREMOTO IN MESSICO: LO SCAMPATO PERICOLO PER UNA FAMIGLIA SASSARESE. LA TESTIMONIANZA DI SARA CHESSA

Sara, Bruno e i due figli nel quartiere di Frida, uno dei più colpiti dal terremoto


«I muri sembravano plastilina. E io andavo verso la porta, ma non riuscivo a stare in piedi. E andavo avanti a carponi. Cinquanta secondi, durati un secolo. Ma mai lunghi quanto i 45 minuti che ci ho messo a sapere che mio marito e i miei due figli stavano bene. Ho rischiato di impazzire». Non è certo una donna che si spaventa facilmente Sara Chessa, 43 anni, sassarese. Il marito Bruno Mazzanti, anche lui di Sassari, lavora per il colosso italiano delle caramelle Perfetti Van Melle. E prima di trasferirsi, un anno e mezzo fa, a Città del Messico hanno vissuto per oltre 5 anni in India. «Ma una cosa del genere non l’avevo mai vissuta – racconta –. Mai nemmeno immaginata». Eppure il terremoto è un compagno di viaggio dei cittadini messicani. Solo 12 giorni prima della scossa di magnitudo 7,1 che ha messo in ginocchio la capitale e gli stati vicini causando oltre 240 morti, la terra aveva tremato, come mai nell’ultimo secolo, sulle coste del Pacifico, seminando morte e distruzione. «E solo poche ore prima del terremoto di martedì – racconta Sara Chessa – avevamo fatto un “simulacro”, un’esercitazione, per ricordare l’anniversario del sisma del 1985, quando persero la vita seimila persone». Niente però può preparare a quello che è successo alle 13.14 di martedì. «Ero in camera mia – racconta Sara Chessa – stavo spendendo una mail, mi preparavo a telefonare alla mia famiglia, a Sassari. Tutto ha iniziato a tremare, in maniera violentissima. Ho capito dopo un secondo, ho pensato che non era possibile che stesse succedendo. Qualche ora prima avevamo fatto l’esercitazione. E ora era vero». Sara non perde la testa, prova a muoversi, ma deve procedere a carponi. A fatica riesce a raggiungere l’uscita. «In India abbiamo imparato a non prendere alla leggera la forza della natura. E allora abbiamo scelto di abitare in un palazzo “sulla roccia”, nel quartiere di Santa Fe, nella zona sud di Città del Messico. Un palazzo costruito dopo l’85, e quindi realizzato con criteri antisismici. E in un piano basso, il secondo, per rendere più facile un’uscita precipitosa». Dettagli che valgono la salvezza. «La torre di 19 piani dove abitiamo ha retto, nonostante fossimo nel lato della città più vicino all’epicento. Quelle vicine hanno subito danni importanti. Nel centro sono crollati decine di palazzi, una scuola. Sono morte oltre 100 persone, 21 bambini». E proprio i due figli, di 6 e 10 anni, sono il suo primo pensiero. «I telefoni erano fuori uso. Io fuori di casa, aspettando di capire se ci sarebbe stata un’altra scossa, se la torre era agibile. Per 45 minuti non ho potuto sapere niente di mio marito e dei bambini. Poi per fortuna sono potuta rientrare, e con incredibile gioia ho scoperto che il wi-fi funzionava. Ho chiamato Bruno, mi ha detto che dopo due minuti dal sisma era arrivata una mail da scuola. I bambini stavano bene. Ho ripreso a vivere». La macchina dei soccorsi si muove immediata. «Sono rimasta stupita dall’efficienza. Ho imparato a conoscere la generosità dei messicani. Ma è stato meraviglioso vedere le mamme che mi rassicuravano nella chat di WhatsApp che odiavo tanto, e che ora adoro. Una di loro aveva preso i miei figli da scuola. Gli aveva dato da mangiare, li stava ospitando. Mentre andavo a prenderli è tornata la rete del cellulare. E ho potuto rassicurare i miei genitori, gli amici. Stavamo bene. Da quel momento mi sono concentrata ad aiutare gli altri». Un modo per non lasciare spazio alla paura. «La terra trema, ogni giorno – racconta Sara –. Ma io sto raccogliendo generi di prima necessità con i miei figli. E tra un po’ andremo nella loro scuola a consegnarli. Amazon permette di comprare on line quello che serve e si occupa della consegna. Wi-fi e telefono sono gratis dappertutto. Mio marito è tornato a lavoro, e questa città, questa comunità, caotica, enorme ma anche così viva e solidale si è già rimessa in piedi. Per l’ennesima volta».

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