di Sergio Portas
Si fa presto a dire:”Aiutiamoli a casa loro” ( il mantra che oramai sembra volere unire i due Mattei, boss della politica italiana, gli altri due, il grillo pentastellato e l’ex cavaliere, concordano da sempre). A casa loro ci siamo andati sin dai primi anni dell’800 (armati sino ai denti) e i disastri che abbiamo combinato competono per numero con le stelle appese a un cielo africano d’agosto. “Osteria dei moschetti, para ponzi ponzi po, in Italia siamo stretti, para ponzi ponzi po, allunghiamo lo stivale fino all’Africa orientale…” cantava mamma mia (era del ’22) per farmi addormentare. Sembra ieri, era ieri. Alex Zanotelli, missionario comboniano direttore di “Nigrizia” e “Mosaico di pace” si rivolge alla stampa italiana, sentitamente ai giornalisti, perché “abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava sopratutto sull’Africa. E’ inaccettabile, continua nel suo accorato appello, il silenzio sulla drammatica situazione del Sud Sudan, ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti… il silenzio sulla Somalia, in guerra da trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni…la guerra del Centrafica che sembra non volere finire mai… il silenzio sui trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al lago Ciad, la peggiore crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU… E’ inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi…”. Il Mediterraneo “Mare nostrum” diventato nel frattempo “Cimiterium nostrum”. In tanto sfasciume di umanità c’è comunque qualcuno che opera per arginare le emergenze, per cementare la pietra d’inciampo che, prima o poi, invertirà il segno di questa insensata politica. E allora sono andato a trovare Anna Agus, responsabile del servizio sostenitori di ActionAid Italia Onlus, associazione no profit, che da almeno un decennio ogni tanto mi manda una lettera (prestampata, ma che comincia sempre con caro Sergio…) per raccontarmi e darmi notizie di una certa Idah , una bimba “adottata a distanza”, come dicono loro, che ha casa nella regione di Mpulungu, Zambia, vicino al lago Tanganica, tanto per orizzontarci. (Per i frequentatori del web basta cliccarne il nome su You Tube e la sentirete “dal vivo”, Anna intendo, c’è anche un suo video dove racconta dei bimbi nepalesi colpiti dal terremoto ). Il babbo di Anna era di Carbonia, lei e altri due fratelli, sono nati a Milano. Intorno ai suoi vent’anni, intanto che studiava lingue all’università, faceva “un po’ di volontariato” per questi di actionaid (azione aiuto?), tipo imbustare volantini e roba simile, e si dimostrò così attiva che le proposero di lavorare a tempo pieno per l’associazione. Da allora, passati più di vent’anni, mi dice lei, fa il mestiere più bello del mondo. E a sentirle raccontare le storie e le vite delle persone che va incontrando per ogni lembo del mondo in cui Actionaid opera, non si stenta a darle credito. “La mia prima trasferta, in Malawi, (attaccato allo Zambia n.d.r.) si risolse in un disastro di tipo alimentare ( le uova?), persi letteralmente conoscenza e fui rimpatriata immediatamente. Un mese di riposo e poi, perché il trauma non si strutturi e ti prenda la paura dell’esotico, la mia prima volta in India. Da allora ci sono stata numerosissime volte”. Per controllare come procedono i progetti che sono finanziati dai cosiddetti “sostenitori”, che naturalmente con ottanta centesimi al giorno (al mese sono 25 euro) non è che tu adotti veramente un bimbo, lui, le fotografie che ti manda nel tempo, i disegni che arrivano periodicamente, le lettere ( in inglese) che per lui scrive l’incaricato del campo di lavoro, è solamente il referente che, letteralmente, ti tiene legato. Al progetto in cui la sua comunità è inserita. Anzi ai progetti: molti dei quali sono rivolti alle bambine, alle donne in generale. Nello Zambia, come in India del resto, e in Pakistan e Guatemala e… e… dappertutto, le donne sono l’anello debole dove si scarica la violenza del sistema patriarcale imperante. Molte di loro a quattordici anni finiscono di andare a scuola perché vengono sposate, le gravidanze precoci le espongono a rischio di morte altrettanto precoce. Da quelle parti anche un rapimento, dopo che l’”amata” rimane sequestrata per una settimana alla mercé del suo violentatore, porta automaticamente al “matrimonio riparatore”. A vent’anni spesso una donna è già madre di quattro, cinque figli. Quindi quando da Mpulungu mi scrivono che 43 persone hanno partecipato a un corso su risparmio, credito e investimento. 133 a una serie di incontri sul diritto alla terra. 150 persone di Vyamba e Isoko sono state sensibilizzate contro la violenza femminile. 47 hanno seguito corsi per l’allevamento delle api e hanno ricevuto la strumentazione necessaria. Non posso che esserne felice. Sono felice che Idah mi scriva di aver ricevuto una bicicletta nuova, e finalmente non ci metterà più un’ora di cammino per arrivare a scuola (very far away from my home), che è molto lontana da casa mia. Lei che deve aiutare mamma a tener pulita la casa, cucinare, prendersi cura della sorellina minore Deli. Le piace andare a scuola (80% nel test di matematica e scienze), ma le tocca anche piantare miglio e andare nella foresta in cerca di funghi (che si chiamano Pumbwa). La piccola impresa di beneficenza che Cecil Jakson Cole fondò nel 1972 con l’intento di incrementare la possibilità di frequentare le scuole ai bimbi indiani e pakistani, si è trasformata in una organizzazione che opera in più di 45 paesi in tutto il mondo. “Aiutandoli a casa loro”. Responsabili dei progetti sono le persone che vivono sul posto, che conoscono le realtà e le priorità dei loro compaesani. Actionaid è il supporto che fa loro da ombrello. Mi dice Anna che anche in alcuni paesi “poveri”, India e anche Brasile, oggi inizia a formarsi una piccola borghesia in grado di supportare il costo di una “adozione a distanza”, a Milano sono dal 1989, ricopio alcuni dati del loro bilancio certificato del 2016 (che si può vedere su internet): 136.451 sostenitori, 111.229 attivisti, 222 progetti nel mondo, 38 progetti in Italia. 48 milioni di euro sono i fondi raccolti per la lotta alla povertà e alle ingiustizie, di cui l’84% sono donazioni regolari. 2 milioni di euro vengono dal 5 per mille con oltre 54.000 preferenze. Di questi il 72% sono destinati ai programmi operativi, solo l’8% servono per il supporto e la struttura, il resto è raccolta fondi. Dice Anna che Actionaid dopo un periodo di grande sviluppo risente della crisi oramai più che decennale su cui il mondo si è impantanato, quindi occorre mettere in campo strategie sempre diverse perché l’azione dell’associazione venga fatta conoscere ai più. Il capitalismo che tutti ci pervade e alla cui musica tutti balliamo più o meno consapevolmente, prevede sprechi di denaro che sono funzionali al suo mantenimento. In queste pieghe ( che valgono miliardi di euro) si possono agevolmente trovare risorse, risparmi, funzionali ai progetti di associazioni come Actionaid. Nel nostro paese, ad esempio, fare testamento è ancora un atto poco consueto. Eppure è un atto molto semplice, modificabile nel tempo, con il quale chiunque può decidere come disporre dei propri beni per quando avrà cessato di vivere. Non sono necessari notai o testimoni. Basta un foglio di carta, una data, e uno scritto magari in bella calligrafia che dica, fatta salva la legittima che tocca agli eredi, che so: “Io sottoscritto lascio ad Actionaid un terzo di quanto si troverà nel mio conto corrente al mio decesso. Firmato e sottoscritto. Punto. Perché lasciarli proprio ad Actionaid? Intanto per questa loro lucida follia di portare cambiamenti concreti nella vite delle persone povere ed emarginate, coinvolgendoli direttamente nel progetto di cambia
mento che li riguarda. E perché i fondi sono spesi e gestiti secondo principi di trasparenza che ognuno può verificare. Per cui con 5.000 euro si garantiscono acqua potabile e servizi sanitari a 250 persone. 11.000 ne servono per costruire un’aula scolastica in Uganda. O magari in Zambia, dove vive la mia Idah, sapete questo paese, ricchissimo di materie prime, rame e nichel, diamanti, si è sempre chiamato Rhodesia. Il Cecil Rhodes che le diede il nome ne fece un suo feudo personale, lui nato a metà ottocento nel 1889 aveva una compagnia commerciale con una sorta di esercito privato con il quale aiutò i suoi connazionali inglesi nella lotta contro i boeri (un tenente di cavalleria a nome Winston Churchill avrebbe poi fatto una discreta carriera politica) che si concluse con un vero e proprio massacro di Afrikaners. Il nostro eroe in quello che oggi è Zimbabwe stipulò un trattato con il re Lobenguela: in cambio di ogni diritto minerario pochi vecchi fucili e un altrettanto vecchio battello a vapore. Inutile dire che morì ricchissimo. Mark Twain che fu anche buon giornalista oltre che grandissimo romanziere (Uno su tutti: Le avventure di Tom Sawyer) scrisse: “Rhodesia è il nome giusto per quella terra di pirateria e di saccheggio, ed è il nome giusto per gettare del fango su di essa”. Oggi le miniere di rame del paese sono gestite da capitali e dirigenti cinesi, talvolta si è sparato sui minatori che invocavano diverse condizioni di lavoro e diversi orari. E’ successo anche a Buggerru in anni non lontanissimi. I cinesi si comprano anche estensioni di terra incredibili dove impongono monocolture con ampio uso di fertilizzanti chimici. Il fenomeno è noto come “land grabbing” (grande furto della terra) e Actionaid stima che dal 2000 ad oggi nel mondo siano più di 1600 gli accordi di acquisizione di terra su larga scala che hanno interessato oltre sessanta milioni di ettari. In aree rurali occupate da comunità che debbono affrontare le conseguenze negative degli espropri di cui sono state vittime. Ecco dobbiamo proprio piantarla di aiutarli in casa loro in questo modo. E’ un mondo, visto con gli occhiali di Actionaid, fortemente squilibrato, eppure loro ci provano a mettere un freno. Anna Agus è in partenza per l’India, mi dice ci starà due mesi. Suo marito fortunatamente fa parte dell’associazione, è inglese, non hanno figli, o meglio ne hanno qualche migliaia sparsi per le favelas di questo pazzo meraviglioso mondo, se non smettiamo di derubarli a casa loro, è sicuro, verranno tutti a trovarci in casa nostra, prima o poi.