Qualche narrazione bisognerà pure che la cambiamo, se a ogni comunicato dell’Istat viene confermato che i giovani se ne vanno dalla Sardegna. Che lasciano le città (tremila hanno abbandonato Cagliari), altroché paesi. Che un quarto della gioventù sarda se n’è andata dal 2008 a oggi. Che nonostante questo (o forse, anche per questo) siamo l’ultima regione italiana per accoglienza dei migranti, i sindaci sardi i più resistenti. Ci torna L’Espresso: Cagliari è fra le prime sette città italiane per numero assoluto di abbandoni, dopo Napoli e Messina. La Sardegna prima, sul podio della risacca, come lo chiama il settimanale.
Ce n’è da cambiare schemi, retoriche. Per esempio quella dello spopolamento: tremila ragazzi che lasciano Cagliari non è l’equivalente di venti paesi della dimensione di Semestene e Soddì che si estinguono? Un paese di soli giovani. Invece sembra che Cagliari attragga, bella e solare e con la pavimentazione nuova accecante, croceristi e cene sulle strade, passeggiate al Poetto, e sottragga ragazzi ai paesi dell’interno, secondo il vecchio schema città-campagna.
E si scopre che attrae l’Europa, e attrae i ragazzi di Cagliari, Sassari, Monserrato, Quartu, Carbonia, Assemini, Oristano, Alghero. Figurarsi se resiste Bortigali: c’è da augurarsi che non resista.
C’è un principio che sembra costitutivo di un nascente movimento politico, Sardos, per esempio, che dice: “I Sardi (maiuscolo) amano la Sardegna in modo viscerale e, nonostante i mille borbotii e lamentele, sono contenti di abitare nell’isola”. Ma è vero? Se è stato vero, e quelli che andavano via lo facevano con la morte nel cuore e la nostalgia del ritorno, nelle migrazioni storiche, adesso è ancora così? Questo le statistiche non lo dicono. L’Espresso, nel breve servizio sui primati della Sardegna (titolo: «Le 50 città che perdono di più»), ha questo incipit: «L’isola li incontrerà d’estate. Forse. Di certo non nel resto dell’anno, perché il futuro l’hanno scelto lontano».
Succede in altre parti d’Italia e dell’Europa, certo. In Italia per esempio la provincia di Ferrara è altrettanto abbandonata, piena pianura, il delta del Po: a un paese nemmeno troppo piccolo (Lagosanto, quasi 5000 abitanti) il settimanale dedica il servizio principale di molte pagine sui ragazzi in fuga. In un raggio di qualche decina di chilometri ci sono Bologna, Rovigo, Imola, Ravenna, Venezia a 100 chilometri. Non proprio l’ultimo lembo d’Italia, marginale e periferico, anzi: regioni e città ben amministrate e da lungo tempo, infrastrutturate, in crescita e in ripresa di sviluppo.
E qui il tema che L’Espresso introduce (I giornali di De Benedetti si sono resi conto negli ultimi giorni della pericolosa china che sta prendendo l’Italia sotto l’effetto della drammatizzazione dell’immigrazione, anche per impulso di Minniti), è quello dell’ ostilità agli immigrati in regioni che pure avrebbero solo da guadagnare dall’averli, integrarli, far frequentare le scuole ai figli e far assistere i nonni dalle donne adulte e magari con i mariti a lavorare in campagna, come già fanno (in nero, vivendo nei container) perché gli italiani non praticano coltivazioni al suolo, dove bisogna chinarsi.
Non lontano da Lagosanto è Goro, dove fecero le barricate contro l’arrivo di 12 donne rifugiate, e le respinsero, a fine 2016. In tutta l’area il clima è lo stesso, zero ospitalità ai migranti, ai rifugiatii. D’accordo a non mettere la questione all’ordine del giorno i sindaci di centrosinistra e l’opposizione dei 5 stelle, figurarsi leghisti e destra.
Per niente strano. L’Istat lo ricorda da tempo: la percezione d’insicurezza aumenta fra gli anziani, diminuisce fra giovani e adulti. Così non sembra un caso che la Sardegna, insieme a quel primato della fuga dei giovani, ne abbia un altro: quello della minore accoglienza dei rifugiati nella rete degli enti locali. L’Espresso non ne parla, i giornali sardi raramente, e se lo fanno è accompagnando i dati alle dichiarazioni dei sindaci e dell’Anci, dell’assessore regionale Spanu, della responsabile dell’ufficio regionale insediato per l’occorrenza, sul perché è difficile, e non sarebbe giusto introdurre elementi di divisione nelle comunità.
Eppure le esperienze degli immigrati negli ultimi decenni non sono negative, in Sardegna: le aziende agricole hanno assunto albanesi, macedoni, rumeni, famiglie intere con i figli a scuola, nelle scuole, i primi fidanzamenti e matrimoni con i “nativi“. E la colonia delle badanti cresce, nei paesi. Durissime esperienze, certo, ma per gli altri, non per i sardi.
Così quella che viene fatta passare per cautela, sembra una copertura alle chiusure, alla xenofobia, al razzismo, risorgente anche nelle scuole, nelle elementari, dalle materne, non solo su facebook e nei bar. Magari ci sarebbe per la Regione da ascoltare gli insegnanti, da mettere insieme a qualche ballo sardo nei programmi integrativi di Iscol@, negli edifici “del nuovo millennio“, l’educazione alla convivenza, programmi speciali, il tempo pieno, a praticare tolleranza, reciprocità.
Non sembra che ci sia il centrosinistra al governo della Regione, sindaci di centrosinistra nella gran parte dei Comuni, a cominciare dal capoluogo.
Il ragionamento è: si perdono le elezioni a star dietro alla solidarietà. Ma la Regione dei tecnici, non l’ha messo in conto all’origine, di smetterla lì, con 5 anni? Non varrebbe la pena di finire sui giornali per qualche buona pratica solidale? Succede alla Calabria, a qualche sindaco lucano. Perché l’alternativa è che ci si sta per i record negativi, per la svendita del paesaggio costiero, i fanghi rossi, e prima o poi anche i croceristi saranno meno glamour di come li si è dipinti.
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