L’atto di ingratitudine maggiore che Fabio Aru possa subire sarebbe la nostra delusione.
Con tutta la comprensibile disillusione, non sarebbe reazione giusta.
Non sarebbe ragionevole la delusione di chi, finora, ha tifato per lui, sostenendolo e sperando che il sogno di vederlo in maglia gialla sui Campi Elisi di Parigi potesse realizzarsi.
L’estate del 2017 resterà per sempre, nella memoria di noi sportivi, il tempo di un sardo in maglia gialla, le giornate di passione per un nostro conterraneo in grado di giocarsi alla vittoria finale sino all’ultimo.
Per sempre. Per sempre gliene dobbiamo essere grati.
In cima all’ultima montagna Fabio Aru ha perso un minuto dai suoi diretti concorrenti in classifica, scivolando al quinto posto e a 155 secondi dal leader Chris Froome, la cui formidabile forza è emersa alla distanza.
Un minuto e 55 secondi di distacco dal primo in classifica, su settantotto ore complessive di gara. Un respiro, un soffio: c’è davvero di che essere delusi, quando si corre sempre da soli, senza una squadra che ti sostenga, contro formazioni zeppe di campioni che sarebbero capitani ovunque?
In quale altra squadra una forza della natura come Mikel Landa si offrirebbe di portare le borracce a Froome, se non nella dominante Sky?
La speranza che Fabio Aru potesse battere tutti l’abbiamo alimentata fino a poco prima che scrivessi queste righe, fin quando i corridori di testa del Tour de France hanno iniziato a pedalare tra gole, crepacci e creste delle Alpi francesi, a due passi dal confine italiano, gli occhi rivolti alla punta di roccia nuda dell’Izoard, una delle montagne simbolo del Giro di Francia.
L’Astana, l’impalpabile squadra kazaka di cui Aru è capitano, aveva in fuga Lutsenko: tutti abbiamo sperato che fosse un puntello per un attacco di Fabio nei durissimi chilometri finali, salvo poi ricrederci quando Lutsenko ha tirato dritto pensando alla vittoria di tappa. Programma sfumato, quando prima il colombiano , poi il vincitore di tappa Barguil e infine gli uomini di classifica hanno iniziato ad alzare vertiginosamente il ritmo, raggiungendo e lasciandosi alle spalle il giovane kazako.
Sugli ultimi tornanti, ad oltre duemila metri di quota, vedere la sofferenza di Fabio che cercava disperatamente di stare a ruota dei primi mi ha commosso, molto più dei giorni di gloria della vittoria di tappa e della conquista della maglia gialla.
L’ho capito da quello sguardo amareggiato, appena tagliato il traguardo, che Fabio aveva dato tutto il possibile.
Sì, era deluso. A lui è concesso esserlo, a noi no.
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