di Alberto Mario DeLogu
pubblicato il 16 giugno su http://lanuovasardegna.gelocal.it/sassari
Sfortunato quel paese che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Sarà per questo che la Sardegna, altrimenti baciata dalla fortuna, di eroi ne ha sempre avuti pochi. Gli eroi sardi sono minori, poco ostentati, uomini e donne che sanno estrarre una vittoria da una lunga serie di sconfitte.
Dopo 17 giorni e 3590 miglia di epica navigazione lo skipper sardo e la sua Vento di Sardegna hanno tagliato a Newport (Stati Uniti) il traguardo della più difficile e pericolosa regata transatlantica in solitario
Questo eroe sardo non ha i muscoli gonfi di un Leonida cinematografico ma è un uomo asciutto, di aspetto mediterraneo, timido e riservato, che di mestiere fa il velista e gira per i mari del mondo. Si chiama Andrea Mura, un cognome predestinato – in gergo marinaresco la “mura” è la manovra sopravvento di una vela – e la sua ultima sconfitta risale a poco meno di due anni fa, quando il governo della Sardegna gli sfilò il tappeto da sotto i piedi negandogli un aiuto finanziario che gli permettesse di fare la Vendée Globe, il giro attorno al mondo in solitario.
Ha trascorso le due ultime settimane nell’Oceano Atlantico cercando di portare se stesso ed una bandiera sarda zuppa d’acqua salata nel Nuovo Mondo, a bordo di un guscio filante di sedici metri dal nome “Vento di Sardegna”. Ma i venti e i mari che ha dovuto affrontare hanno poco delle dolci brezze di Sardegna.
Ogni tanto manda messaggi in bottiglia, brevi video ambientati sotto la sua capottina trasparente nei quali descrive la situazione con poche parole secche e chiude ogni messaggio con un sorriso, un cenno della mano e un educatissimo ciao.
Per il resto lascia parlare le immagini: un maelström d’acqua ghiacciata e onde alte quanto è lunga la barca, un gurgite vasto virgiliano al centro del quale è lui, un piccolo uomo coperto solo da una cerata, una chiglia di plastica e la sua folle intelligenza.
Andrea non perde mai il buonumore, neanche quando il mare si fa di piombo, l’acqua si fa proiettile, le sartie fischiano e la randa che porta il suo nome freme come la coda di un serpente a sonagli. Nei tratti peggiori lascia fare al pilota automatico e si rannicchia sul madiere, confessando un po’ di quella “voglia brutta” della quale soffriva del resto anche l’ammiraglio Nelson.
E così quest’uomo mite affronta le nostre paure primeve come un punto bianco tra l’orrido nero del mare e il plumbeo grigio del cielo, paure che nessuna tecnologia saprà mai fugare.
Andrea attraversa quell’Atlantico che mille anni prima si dice sia stato percorso dai vichinghi con nient’altro che una fila di remi e una testa di drago per buon auspicio, e poi da milioni d’altri nei secoli a seguire, con vari ausilii tecnici ma tutti sempre accucciati sui legni, per giorni e giorni, qualcuno in preda alla nausea, e tutti comunque pervasi da quella sensazione di piccolezza e fragilità che obbliga al rispetto per le forze immense della natura e per il nostro labile posticino in mezzo ad esse.
Altri ancora hanno attraversato l’Atlantico con la tracotanza di chi si considera invulnerabile e inaffondabile, ma non è un modo sano per affrontare quel viaggio, e ne hanno pagato il fio.
Dice Andrea, quando la distanza da percorrere ancora è pari a quella di due Sardegne messe per lungo: “Sono stanco ma la gioia di tagliare il traguardo fa scomparire ogni problema”.
Ed è lo stesso sguardo felice e grato di chi ha sentito l’alito della morte fredda a venti centimetri dal viso e chiudendo gli occhi e canticchiando tra sé e sé ha trovato la forza e la pazienza di resistere fino al mattino in cui riapparirà la linea di costa.
È la modestia di chi conosce il mare e sa che niente è sicuro là fuori, e l’unica regola è lasciare la rotta per aiutare chi è in difficoltà, condividere la cambusa e tornare salvi a terra.
Il viaggio di Andrea è una catarsi per un popolo come quello sardo che ha in sorte di vivere su un grande legno circondato dal mare e ne ha visto provenire predoni e soldati, e ne conserva un’avversione che spesso si scioglie nel suo opposto, un’avversione che deve però trasformarsi in una mano tesa verso quei compagni di traversata che sperano solo di trovare qualcuno che li aiuti a rimetter piede sulla terra ferma.