C’è una bimba, accosciata su un pavimento senza piastrelle, accanto a un telaio antico e a una nonna jana- una graziosa fata antica- che col palmo aperto della mano struscia sulle ginocchia una refe di lino che si allunga facendo vorticare il fuso, mentre la jana madre un bel po’ più giovane della prima, anticipando di un attimo il primo chiaror di luna, si china sul telaio alla luce tenue di una candela e pigia a ritmo più o meno regolare, sa peiga (il pedale) uno dei cinque pedali collegato con perizia sapiente a su lissu (al liccio). Il rocchetto dentro la spola e la canna, a turno, passano spediti, attraverso il filato allineato e teso come le corde di un’arpa (una mandata di cotone e un’altra di lino). Man mano che il grosso rotolo dell’ordito si riduce nel subbio posteriore il manto prezioso s’accresce e si arrotola in s’unsulu (nel subbio) anteriore. Con un’energia impensabile, in un donnino così minuto, la jana tira verso di se’ il fitto pettine incassato tra due robusti battenti e mormora qualcosa fra le labbra, ma esige di non essere distolta dal suo impegno. Forse ripete qualche verso della poesia sarda, all’unisono con la voce armoniosa che giunge dalla cucina. Il padre della bimba, che ha addosso l’odore denso del fogliame d’ulivo, con in mano un libretto dalla copertina in tela violetta strizza gli occhi vicino alla fiamma del camino legge, canta e si riposa. La jana tesse e tesse, ma solamente fino al canto del gallo, perché la luce del giorno è utile per tante altre faccende, ma non per la tessitura. Qualcuno ha sussurrato alla bimba che di giorno le janas si trasformano in maghe, qualcun’altro invece dice, in servitrici dell’uomo patriarca.
In mezzo al Tirreno c’è l’impronta di un gigante, imperturbabile a qualsiasi vento. Aspra, rovente, arida, sferzante, pietrosa, spesso spumosa. Cristallo di fonte; oscura foresta. Operosa e silente. Uscio di profumi e suoni arcaici. Sempre imperscrutabile. Mondo granitico e allo stesso tempo seducente, da cui non si scampa. Nonostante il turbinare di ogni vento, essa rimane fissa e intatta, come il tuo sguardo e, ciò che esso va’ a scrutare. Immagini reali, si sovrappongono nella mente di chi come me, non rinnega e un poco annega nel proprio passato ricordando come i forti venti di maestrale smuovessero tutto tranne le finestre che restavano saldamente chiuse alle ventate del nuovo mondo. Ma cosa succedeva oltre quel profondissimo mare blu fin dai primissimi anni cinquanta?
Chissà, senz’altro l’inimmaginabile! Si diceva che nessuno più coltivasse le messi o il lino, che nessuno più tosasse le lane. Dicevano che la corrente elettrica già illuminava tutta le strade delle città e persino quelle dei paesi. Inoltre, ( ma chi lo poteva creder mai) le donne lavoravano spalla a spalla con i maschi, nelle fabbriche artigiane affrancandosi da un mondo vecchio e superato. Al mare, pare che già indossassero il costume da bagno! Si parlava di tante locande e trattorie, di sale da ballo, musica e odi di eccelsi maestri e di botteghe. Centinaia e migliaia di botteghe di stoffe, molto più raffinate di quelle isolane. Chissà che frenesia smuoveva quegli animi al suon di opportunità e quanto si ingigantiva il sogno di emancipazione! Tutto doveva presentarsi come un terreno fertile in cui ogni germoglio potesse divenir ben presto pianta. In effetti, le famiglie povere del nord iniziavano a godere di alcuni privilegi che al sud, o nelle isole se ne ignorava quasi totalmente l’esistenza. Inutile sottolineare che se il terreno era fertile per i poveri e gli onesti, era ancor più allettante e fertile per gli scaltri e gli arrivisti. Era così, buono per tutti e ancor più buono per chi avrebbe sfruttato la fragilità dell’ignoranza. Così udivo parlare dei “padroni” e così ho visto, per tanto tempo il mondo, parziale e un po’distorto, quanto parziale è, un solitario punto di vista. Il mio pensare non era esatto e non si dovrebbe mai fare di tutta l’erba un fascio.
Fin dai primi anni cinquanta, nel nord d’Italia, c’è stata una metamorfosi camaleontica che ha risucchiato in sé, braccia volenterose da ogni punta dello stivale e gli autori pur se svaniti, sono rimasti alla storia. Per citarne alcune, la Falck, la Marelli, la Borletti e decine di altre industrie in pieno boom economico furono portatrici di questa trasformazione e di un benessere generalizzato. Si dialogò di mansioni e doveri, ma anche di diritti. Si concertò di orari, ma anche di rendimenti. In vari casi, i “padroni” come investiti da un dono divino si assunsero l’onere, mettendo il lavoro avanti al profitto, di resuscitare un’ Italia logorata e distrutta. Attorno e non da contorno, le officine tessili manifatturiere fiorirono e operarono nel territorio sviluppando e incrementando le risorse locali. Quello che un tempo era stato sogno o utopia si era dipanato e svolto portando dignitoso benessere e rispetto. A cosa ambire ancora? Semplicemente che questo percorso, non privo di ostacoli ma quasi idilliaco all’occhio della miseria, perdurasse. Questa sì, si è rivelata una pura utopia. Forse per non essersi diversificati nelle competenze e produzioni, forse per calcoli errati o mai presi in considerazione o forse, per speculazioni e corruzioni varie, l’implosione del nostro bel paese ci ha riportato irrimediabilmente indietro. Sdrucito e consunto, pure il miglior abito svilisce.
Però…. Però scopri che qualcosa è rimasto. Un ragguardevole “più di qualcosa” ha retto a quella vulcanicità abnorme, ormai cristallizzata. Alcuni, e in particolare uno, l’imprenditore Ermenegildo Zegna – a suo tempo nominato conte di Monte Rubello- non si è lasciato soggiogare dal profitto, pur riuscendo nel settore a divenire un fiore all’occhiello, riconosciuto in tutto il mondo. Attorno alle sue aziende ha costruito le abitazioni per i propri dipendenti, integrato scuole da cui acquisire cultura e competenze, attività ludico/ ricreative da contrapporre alle lunghe ore passate all’interno nelle proprie officine, provvedendo inoltre alla salute psico/fisica mediante la costruzione di un ospedale e colonie estive per le famiglie. Più lungimirante e attento di altri ha creduto e investito nelle risorse del biellese, ai tempi ostile e povero quanto tanti altri luoghi e con ricerca e innovazione si è spinto oltre il comune sentire, ottenendo pienezza e benessere. Alla sua comunità ha saputo garantire un ambiente naturale, curato mirabilmente come lo è ancor oggi l’oasi Zegna, un parco esteso tracciato di sentieri che si snodano sul costone verso Bielmonte, generoso di fonti d’acqua fresca e gorgogliante, nonché di panchine e aree picnic fruibili da chiunque ami e rispetti la beltà della natura. Grazie al conte Zegna altissimi abeti e betulle, ombreggiano lungo i pendii che da Bielmonte ancora, scendono verso Trivero e a Maggio, fatta salva qualsiasi tempesta, nella verdissima conca si raggiunge il culmine dell’incanto con una vera e propria esplosione di rododendri, bianchi, fucsia, rossi e rosa. I soli fuochi d’artificio portati in loco dall’Olanda dal superbo Ermengildo Zegna. E’ riduttivo citare questa famiglia solamente come esemplare prosecutrice nella cura dell’oasi, perché l’azienda Zegna oltre che tenere alla cura del territorio, tiene tantissimo all’italianità, incorporando in sé risorse umane e status ottimali. Oltre che esportare la genialità dei suoi tessuti, crea eventi a doc di vario genere portando, in particolare ai propri dipendenti, ma aperti anche al pubblico, prospettive di eco sostenibilità, con spirito di appartenenza e passione. Non ultimo e fra i più egregi, il loro sostenere l’organizzazione no profit Amref. Il tutto per rendere grazie a chi crede in essi e nei loro mirabili propositi. Onore e merito va a quello che fu autentico pioniere e ancor di più a chi ne segue il tratto mandando avanti non solo il lanificio e gli eccellenti filati sartoriali (possiedono show room in tanti angoli del mondo), ma anche per non aver smentito il volere del cavalier Ermenegildo, il quale senz’altro, se dovesse esistere un aldilà, gioisce beato della sua “visionarietà” che ancora allieta Trivero e tutti i visitatori che ivi si recano attraverso la sua degna strada panoramica.
Bellissimo articolo! Complimenti Manca Mirella hai una penna d’oro! All’Universita’ avevo studiato il caso Zegna. Ottima azienda di eccellenza Made in
Interessantissimo articolo, complimenti di cuore. Un abbraccio Mirella!
ottimo articolo
Brava come sempre..
Che bell’articolo! I miei complimenti, cara Mirella. Ti conosco come poetessa e
ti scopro scrittrice… di talento! 🙂
Complimenti , continui a stupirci
Complimenti Mirella…
L’ho letto tutto d’un fiato, sempre più perfezionista nella forma e nello stile ,unico come si addice a una scrittrice di grande spessore. Complimenti vivissimi.
L’ho letto, Mirella, e sono tornato indietro di parecchi lustri, quando da bambino osservavo mia mamma che tesseva al telaio e mentre io pensavo i movimenti che lei avrebbe fatto con le mani e con i piedi, beh, lei li aveva già fatti e rifatti a una velocità quasi superiore al mio pensiero, meccanicamente, perchè non occorreva pensare a ciò che faceva, il pensiero era rivolto ad altro, a ciò che avrebbe fatto l’indomani, alle cose da fare in campagna. Checchè ne pensi la gente, il telaio non era un’attività preminente per le janas di casa nostra, ma era solo un modo per passare il tempo mentre si riposavano!
Sempre molto accurata, minuziosa nelle descrizioni, precisa. Un grande, bellissimo articolo. Una prova di scrittura, è vero, ma anche un dono carico di emozione; ecco cosa mi piace di Mirella, quando scrive: si vede il cuore, nelle sue righe. Grande Mirella!!
Grazie Mirella per questo meraviglioso articolo da cui ho appreso un po di storia extra isolana , oltre alle calde sensazioni iniziali trasmesse dal rumore/suono del telaio creato dalle mani abili delle tue Janas mentre creano i noti capolavori ….. Poi quella piccola Jana col libro dalla copertina viola !!! Mi pare quasi di conoscerla. Complimenti davvero
Un articolo sicuramente interessante, ricco di storia e significati, redatti molto bene dalla mia amica Mirella
Cosa dire.un connubio perfetto e un accostamento mirabile.Non lasciarci troppo tempo senza queste perle.Ciao jana
Cara Mirella brava! Continua su questa strada. Per una come me, che ha le mani in pasta nei tessuti ce he ha venduto moda per più di trentacinque anni, bello scoprirne origini e storia.
Visto che fai riferimento alle janas: conoscendo la realtà biellese mi chiedo come mai una tale imprenditoria tessile non sia mai partita in Sardegna.
Quest’articolo mi fa sentire onorata di essere amica dell’autrice che descrive con una piacevole vena poetica un fatto reale,andando indietro e avanti nella Storia in un solo soffio, -L’avventura poi di uno splendido personaggio italiano che ha dato tanto all’economia italiana, rispettando etica e altruismo ,mi riporta al sogno che sto vivendo ,io insieme ad un gruppo pilota,che mi fa credere in un possibile e attuabile cambio epocale.