“L’invasione delle cavallette. Contro le voracissime locuste che infestano molte zone della Sardegna e minacciano di divorare i raccolti sono in corso vere e proprie battaglie. Contadini armati da lanciafiamme attaccano le zone più infestate distruggendo in pochi minuti milioni e milioni di quei terribili insetti“.
Il 2 giugno del 1946 la Domenica del Corriere accompagnava con questa descrizione una dinamica illustrazione sintesi della piaga che da mesi affiggeva le zone della Sardegna. E’ l’altra storia. Quella che se da una parte celebra, dall’altra sottolinea arretratezza e difficoltà; è quella vicenda che scivola nei meandri di un momento importante, troppo importante per la storia moderna. Perché il 2 giugno 1946 è sintesi del cambiamento. Sintesi di una scelta. Sintesi di una vittoria. Non solo quella della Repubblica sulla Monarchia ma quella del popolo che stringe finalmente in mano, matita alla mano, la propria libertà di scegliere.
E’ il 2 giugno del 1946, il giorno in cui l’Italia tutta, nella bellezza del proclamato suffragio universale, sceglie di scrivere il futuro; è il momento in cui le donne rinunciano al rossetto rosso per umettare la scheda elettorale senza il rischio di lasciare sbavature che annullerebbero il voto. E’ il 2 giugno 1946, la data che dall’anno successivo in poi verrà celebrato come tripudio della Repubblica, come elogio della democrazia popolare.
Ma è anche l’indomani della guerra. Quello in cui l’Italia piange i suoi morti e pensa a come ricostruire lasciandosi alle spalle dolore e devastazione. Lo stesso momento in cui si combatte con problemi vecchi e nuovi, sintesi di una arretratezza che tarda a diventare innovazione. Ed ecco perché l’invasione delle cavallette in una Sardegna ancora scossa, in una Sardegna dove l’agricoltura è speranza, è vita, assume un valore simbolico tanto importante. E’ sempre la Domenica del Corriere a raccontarci che:
In Sardegna grandi colonie di cavallette continuano a scendere dalle montagne. Altri tre aeroplani sono atterrati a Cagliari provenienti dall’aeroporto inglese di Bevington, con 5 tonnellate di gammexine a bordo. La gammexine si è dimostrata efficacissima. Un altro metodo di lotta contro il flagello è l’impianto nebbiogeno montato sui treni che si mettono in moto spruzzando nuvole di monocloridina.
Non era la prima volta che su biddi brinkidi, o pibizziri o cuaddu o s’aremigu o, ancora, il panfago sardo (grossa cavalletta endemica esclusiva della Sardegna), arrivava per devastare le colture. Già dal 1600 si attestano importanti presenze di questi insetti. Tornarono poi nel biennio 1867 e 1869 e nel decennio che va dal 1902 al 1910 coinvolgendo buona parte della Barbagia e del Mandrolisai. Il danno alle colture superò allora il milione di lire. Una vera piaga. Eccole ancora, ci ricordano le cronache meanesi, nel 1916, nel 1923, nel 1930 e 1935, nel 1940 e nel 45-46 quando attirarono l’attenzione mediatica finendo nelle illustrazioni della Domenica del Corriere, nel giorno più importante della storia repubblicana.
Un poeta popolare del Mandrolisai, Antonio Puxeddu, noto Pilledda, lasciò a imperitura memoria S’annada de su pibizziri del 1946 con una sua composizione dove ironizzava sul presunto potere del parroco di scacciar via le cavallette. In effetti, a lanciafiamme, fluosilicato di bario o l’arsenico di sodio, nebbiogeno e gammexine, si associavano sovente rimedi derivanti dalla devozione popolare fatti di preghiere e invocazioni, nonché di interventi di maghi e majarje.
Nella raccolta Racconti Sardi, Grazia Deledda fa proprio riferimento a un fantomatico mago in grado di disperdere le cavallette che devastano vigne e orti. Largo era infatti l’uso di brebus e preghiere contro i terribili insetti e le processioni in onore del Santo patrono con particolare devozione a S. Isidoro, santo agricoltore alla cui protezione venivano affidati campi e raccolti. Ci vollero ancora anni per debellare la piaga.
Il tutto avvenne, però, all’insegna di una nuova consapevolezza, all’insegna di un futuro che si andava a scrivere con altre penne e nuovi pensieri. Ma questa, è un’altra storia, l’altra storia.