di Sara Garau
Giunto a Iglesias per la prima presentazione sarda del suo ultimo libro “Come figlie, anzi” (Cuec, 2017), che narra dodici storie di donne che migrano dai loro poveri paesi dell’America Latina, dell’Est Europa, dell’Africa e di altre parti del mondo, per trovare una vita migliore lavorando come assistenti per le persone anziane, Giacomo Mameli, prima dell’inizio dell’esposizione (organizzata ieri sera in piazza Lamarmora dalla Libreria Mondadori e coordinata dalla sociologa Maria Letizia Pruna), concede gentilmente un’intervista in cui racconta il suo mestiere, le donne migranti di ieri e di oggi, i suoi progetti futuri e in cui affronta il tema scottante delle odierne migrazioni verso l’Europa.
Giacomo Mameli giornalista e scrittore, due modi diversi di raccontare. Ce n’è uno che predilige e perché? Io, quando parlo di Giacomo Mameli, non dico né giornalista né scrittore, ma dico cronista, perché i miei libri, incluso “Come figlie, anzi”, sono degli articoli lunghi. Non ho smesso di fare il cronista, cioè di andare a raccogliere le storie e a vedere i personaggi. Non sono un cronista da scrivania e da computer, per svolgere il mio lavoro giro la Sardegna o vado dove capita. Non saprei scrivere se non vedessi le cose delle quali devo parlare, ecco perché sostengo di essere un cronista, perché tutte le mie storie sono impostate come normali articoli di giornale, dove racconto il chi e indago sul chi, racconto il dove e indago sul dove. A ognuna delle cinque “W” (la regola giornalistica anglosassone delle cinque domande “Who?”, “What?”, “When?”, Where?, “Why?” a cui un giornalista deve rispondere nei suoi pezzi per fornire al lettore le informazioni essenziali sull’argomento che sta trattando n.d.r.) devo dare uno svolgimento, è questo ciò che io faccio, ecco perché non sono uno scrittore ma sono un semplice cronista. Sono anche presuntuoso però, perché “cronista” deriva da Kronos, che era un Dio.
Non è un segreto che le donne siano le protagoniste predilette dei suoi libri, specie quelle coraggiose e intraprendenti, pronte ai sacrifici pur di migliorare le proprie condizioni di vita, come risulta infatti da Donne sarde. Protagoniste nel lavoro e nelle professioni, Le ragazze sono partite e Come figlie, anzi. È impossibile non operare un parallelismo tra le ragazze sarde che nel dopoguerra partivano a fare le serve in Le ragazze sono partite, e le donne originarie di varie parti del mondo, spesso istruite e competenti, che abbandonano i loro poveri paesi d’origine per andare a fare le badanti all’estero, protagoniste di Come figlie, anzi. Il fatto che un fenomeno si ripeta a distanza di più di cinquant’anni, con modalità molto simili e che vede le donne sempre impegnate in mestieri che sembrano essere estensioni del loro ruolo tradizionale all’interno della famiglia (casalinghe, accuditrici, educatrici…) va considerato come una sconfitta della cultura da parte di un sistema cieco, che risponde soltanto alla legge della domanda e dell’offerta, oppure si può sperare in una reale emancipazione? Le ragazze di Le ragazze sono partite erano il più delle volte analfabete, non avevano alcuna professionalità. Le “figlie” sono ragazze istruite che hanno professionalità. Nelle università oggi si studia l’economia della casa e dell’assistenza. Queste donne non sono “serve”, non sono “domestiche” e non sono neanche “badanti”. È un nome terribile “badanti”, perché “badare” è un termine che si usa per gli animali: si bada a un cane, si bada alle bestie. Qui invece si assistono delle persone, con delle competenze che alcune delle mie protagoniste hanno acquisito all’università, perché sono psicologhe, sono filosofe, sono fisiatre, quindi, ad esempio, sanno anche come si solleva un vecchietto che ha avuto una sclerosi o altre malattie del genere. Mentre le donne di Le ragazze sono partite facevano parte di un universo che aveva sì voglia di emancipazione, senza però avere nessuna professionalità, che semmai è stata acquisita doing, le donne di Come figlie, anzi hanno acquisito learning, che è completamente diverso. Sono donne capaci, che hanno voglia di fare e si adattano a qualunque lavoro. La sarda, Gonaria (protagonista di una delle dodici storie contenute in Come figlie, anzi n.d.r.), è un idealtipo della sarda di oggi che, se non può fare la direttrice di un’agenzia internazionale di viaggi, lava le scale a Sassari o a Santa Teresa di Gallura, oppure fa la badante. Io racconto queste donne perché sono terribilmente pessimista in questo periodo, perciò racconto storie ottimistiche per esorcizzare il pessimismo che è in me.
Nei suoi scritti è ricorrente il tema della migrazione, perciò è d’obbligo domandarle come interpreta l’attuale fenomeno migratorio verso l’Europa e quali saranno secondo lei le implicazioni nel lungo termine. Le migrazioni sono iniziate e prevedo che non finiranno mai. Il libro è dedicato alla mia bisnonna paterna che arriva da Alba per fare l’insegnante a Escalaplano e a Perdasdefogu, a mia nonna materna che arriva da Salerno per stare vicino alla figlia che era diventata ostetrica a Perdasdefogu e poi concludo con tutte le donne che non hanno conosciuto il mare. Noi occidentali ci dobbiamo rendere conto che siamo privilegiati e non abbiamo nessun merito nell’avere il privilegio di essere nati a Iglesias, a Roma, a Milano o a Bruxelles. Noi mangiamo a colazione, a pranzo e a cena. Nelle altre parti del mondo non si mangia né a colazione, né a pranzo, né a cena, ma oggi – a differenza del Medioevo, ma anche del Novecento, dove non si poteva vedere cosa c’era dall’altra parte del mondo – con le tecnologie informatiche, si può vedere cosa c’è dall’altra parte. Oggi, con le tecnologie che consentono di sapere che cosa gira nel mondo, è impensabile cercare di frenare l’immigrazione. Ci vuole soltanto una classe dirigente che manca a livello europeo, ma con Trump e con Putin abbiamo visto che manca anche a livello mondiale. Ci vuole la convinzione che siamo in una fase di trapasso, dove le politiche vanno cambiate. Noi oggi ci incazziamo quando siamo davanti al semaforo e c’è uno che ci chiede due euro, però non ci rendiamo conto che al semaforo il più fortunato è chi è dentro la macchina, non chi è per strada e chiede uno o due euro. Allora dobbiamo capire che siamo tutti figli di uno stesso Dio, chiunque sia il Dio nel quale noi crediamo, e dobbiamo cominciare a pensare che il nostro benessere di oggi va governato e va diviso con chi sta peggio di noi. È chiaro che non è un problema semplice, però non lo si risolve con l’arroganza e con le urla di Salvini e di Marine Le Pen.
“Come figlie, anzi” è fresco di stampa e alcuni giorni fa è stato presentato al Salone del Libro di Torino. In questo periodo sarà sicuramente molto impegnato nella promozione. Può comunque svelarci se sta già pensando di raccontare altre storie, di oggi o di ieri? Vorrei, se ci riesco, scrivere un nuovo romanzo come La ghianda è una ciliegia, perché ho trovato storie della Seconda guerra mondiale molto intriganti. Come quella di un sardo, originario di Perdasdefogu, finito a El Alamein che, da bambino, non andava nemmeno ai funerali perché temeva i morti, e poi, quando si ritrova in trincea, è costretto a usare i corpi dei morti come barriera, ammettendo: “mi hanno salvato i morti”. Ho anche una storia bellissima che è legata all’attualità di oggi, di un uomo di Perdasdefogu che va in Venezuela negli anni ’80 quando c’è in corso una rivoluzione come quelle di questi giorni, e lui, siccome è uno spirito ribelle, partecipa alle proteste di piazza e finisce in galera. Vorrei raccontare storie di guerra, come quella di un soldato di Teti che oggi ha novantotto anni, della sua guerra in Tunisia, e di quando ha assistito alla morte di una ventina di persone soffocate dalla sabbia che, spinta dal vento del Sahara, entrava in bocca e nelle narici. Forse il titolo sarà La chiave dello zucchero, che ho scelto ispirandomi alla vicenda di un antifascista di Jerzu ucciso dai tedeschi in una chiesa in Piemonte. Quando si trovava a casa sua, a Jerzu, cercava sempre di mangiare lo zucchero, finché non lo ha trovato più perché sua madre lo aveva messo sotto chiave, perciò lui cercava di scovare “la chiave dello zucchero”.