La Sardegna possiede un patrimonio demo-antropologico (folklore, cultura popolare) di dimensioni eccezionali. È una cosa che sfugge all’attenzione e su cui ci si interroga troppo poco.
Non è nemmeno un fatto così noto come potremmo pensare. Sull’isola lo si dà per scontato, ma spesso se ne ignorano diffusione e rilevanza. Oltremare se ne sa poco o nulla o comunque non se ne ha la misura.
Ho argomentato l’ipotesi che la folklorizzazione degli usi e dei costumi, della musica e delle festività popolari sia stato un fenomeno sì di stampo tipicamente colonialista, ma anche – in modo non intenzionale né ragionato – anche un mezzo utile per la preservazione e la trasmissione intergenerazionale di forme culturali altrimenti facilmente soccombenti davanti alle spinte della contemporaneità.
Il processo di esotizzazione e minorizzazione della cultura sarda nel suo complesso è un fenomeno storico evidente (anche se non troppo studiato).
La nostra “orientalizzazione” non solo anticipa di molto (più d’un secolo) la teorizzazione di questo processo da parte di Edward Said, ma ha anche una sorta di certificato di nascita.
Come tutti sappiamo, infatti, nel 1850 venne dato alle stampe a Napoli un volume intitolato Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali. Era uno studio di un gesuita trentino, padre Antonio Bresciani, ed era contemporaneo dell’affannosa opera dell’intellettualità sarda filo-sabauda volta a dare legittimazione alla nazione sarda per integrarla nel contesto italiano.
Sforzo quest’ultimo non troppo meritorio (pensiamo alla figuraccia fatta con le false Carte di Arborea) e comunque destinato ad essere malamente frustrato.
Questi famosi “costumi” dei sardi fin da allora hanno affascinato lo sguardo osservante del forestiero. Una tale diversità, così profonda e così diffusa, è sempre stata difficile da comprendere e in certa misura anche da accettare. Non senza ridurla dentro le categorie razziali (razziste) e colonialiste in voga tra Otto e Novecento.
I sardi erano sì delinquenti, ma anche pittoreschi; ed era affascinante, benché barbarica e “primitiva”, la loro musica, era suggestivo in quanto “arcaico” il loro modo di ballare insieme, così come era meritevole di attenzione perché “conservativa” e “più vicina al latino” la lingua sarda.
Una serie di stereotipi molto forti che da allora permeano la coscienza di sé dei sardi, anche di quelli che si dedicano oggi all’attività coreutica e musicale di tradizione popolare.
Nonostante i meriti (involontari) della folklorizzazione, a cui si è accennato, è infatti evidente come la grandissima diffusione dell’associazionismo folklorico non corrisponda sostanzialmente mai a una grande e diffusa consapevolezza culturale. Tanto meno politica.
Anzi, spesso il mondo del folklore è quello più auto-colonizzato, più vittima del nostro mito identitario subalterno.
Non deve stupire la buona disposizione d’animo, se non proprio la gratitudine, con cui molti gruppi folklorici si prestano alle passerelle in favore dei potenti di turno, di passaggio sull’isola.
Persino in ambito linguistico il mondo del folklore nostrano tende ad essere conservativo, vittima della visione “dialettale” ed esotica a cui soggiace la cultura sarda nel suo insieme e la lingua in particolare.
Ci sono esempi piuttosto clamorosi di cori a tenore che definiscono se stessi “tenores”, mutuando l’errata dizione italiana. E ne rivendicano la correttezza, contro ogni ragionevolezza, oltre che contro la stessa lingua sarda.
Sempre in ambito musicale, è evidente la rarità di tematiche politiche e sociali nel patrimonio testuale dei tanti cori sardi, a tenore o meno che siano. Cosa che differenzia la Sardegna dalla Corsica o dai Paesi Baschi, per esempio.
Questa è una casistica chiaramente limitata, ma significativa. Dimostrazione di quanto profondo sia lo scollamento tra passione sincera, abilità tecniche e coscienza di sé.
Naturalmente esistono delle eccezioni. Penso ai cori a tenore orgolesi, specie tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, ed altre esperienze analoghe. È anche probabile che attualmente siano in corso processi di aggiornamento culturale che sfuggono alla percezione superficiale e occasionale.
Tuttavia qui c’è una spia importante di quanto sia stata pervasiva e di quanti danni faccia l’opera di minorizzazione e di folklorizzazione del nostro patrimonio culturale.
Essendo privi di un orizzonte condiviso, i sardi pensano a se stessi prima di tutto dentro la categoria del locale, tra la famiglia, il vicinato e sa bidda. Il livello di appartenenza successivo non è la Sardegna, quanto piuttosto la nebulosa di segni, linguaggi, immagini, simboli veicolata dai mass media principali. Prima di tutto, ancora oggi, dalla televisione italiana (e dall’italiano, per quanto riguarda la lingua).
Non è un fenomeno assoluto e senza crepe, ma è molto forte.
Chi frequenta l’associazionismo folklorico fatica a uscire da questa trappola. Soprattutto le generazioni meno giovani.
La scarsa consapevolezza del significato delle tradizioni popolari è una carenza che viene esportata anche fuori dall’isola. Pensiamo alle ricorrenti manifestazioni folkloriche presso i circoli dei sardi emigrati o nei festival internazionali.
Senza parlare del fatto che a volte le associazioni che si dedicano alle tradizioni popolari sono diventate bacini di consenso per politici locali, comodi “pacchetti di voti” da mobilitare all’occorrenza e certo non sempre a vantaggio di formazioni politiche sarde.
Tutte ombre che attenuano la visione entusiastica a proposito di questo vasto ambito culturale e sociale.
In ogni caso, si tratta di un ambito di importanza decisamente maggiore di quella attribuitagli dai mass media e dagli studi accademici. A parte circostanze particolari (le feste più importanti, come Sant’Efisio o il Redentore, ecc.), l’attenzione giornalistica è del tutto assente. Nel campo della ricerca, lasciati a un discorso a parte gli studi etno-musicologici, latitano percorsi strutturati di ampio respiro.
Anche qui ha prevalso la visuale etnografica, antropologica, che tipicamente si riserva ai luoghi e ai popoli percepiti come estranei dall’osservante “occidentale”. Invece si tratta di un ambito che andrebbe vagliato e compreso in termini sia storici sia sociologici, misurato coi criteri della nostra contemporaneità, calato nella realtà viva in cui questi fenomeni esistono e si riproducono.
Data la sua ampiezza, il fenomeno folklorico in Sardegna avrà ancora per un pezzo un suo peso. Se sarà solo una zavorra o invece un bagaglio culturale creatore di emancipazione sarà il futuro a dirlo.
Conoscerlo, studiarlo, farne emergere le contraddizioni, valorizzarne le potenzialità positive è necessario per la sua crescita e prima di tutto per la consapevolezza di chi lo vive.
Altrimenti si ridurrà inevitabilmente a una banale mistificazione di tradizioni popolari più o meno genuine, buona per intrattenere i turisti e poco più. Salvo poi riconsegnarci collettivamente, dopo un effimero momento di gloria posticcia, al nostro destino di dipendenza e di impoverimento materiale e immateriale.
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