di Elisa Sodde
Per l’incontro fra me e Ottavio Olita, galeotta fu la recensione a L’oltraggio della sposa redatta da Massimo Dadea e pubblicata da Tottus in pari … Dalla lettura di quella recensione ho avuto un’illuminazione! In una giurista che si occupa di divulgazione culturale e, nello specifico, di storia delle donne e delle pari opportunità, ha toccato le corde giuste. Dadea (che non ho ancora l’onore di conoscere), ha colto nel segno facendomi capire subito che il libro in parola era uno scrigno di spunti molto interessanti che potevano – dovevano – prestarsi ad una riflessione collettiva. Il ruolo della donna nella coppia, nella famiglia, nella società dell’epoca e quella attuale; gli stereotipi di genere e la loro evoluzione; i media e la loro influenza nell’opinione pubblica, la spettacolarizzazione dei processi, allora come oggi, ecc. Così il sesto romanzo di Ottavio Olita – affermato scrittore di saggistica e narrativa, già giornalista di chiara fama, nato in Calabria da genitori lucani, presto trasferitosi in Sardegna – approda nel veneziano per opera dall’Associazione culturale Un ponte fra Sardegna e Veneto. Ecco che l’invito in quel di Noale (VE) a prendere parte attiva e propulsiva alla tavola rotonda dal titolo Il ruolo dell’educazione e dei media nella creazione degli stereotipi uomo/donna … ieri e oggi, crea anche una ghiotta occasione per conoscere più da vicino Ottavio Olita, icona giornalistica, non solo per i sardi, che come me, mancano da tempo dall’isola. Poco dopo aver accolto lui e la moglie Sandra all’aeroporto di Treviso, durante il pranzo, non riesco a tenere a freno la mia curiosità e ne approfitto per porgergli alcune domande, la prima delle quali non può che essere: com’è nato il romanzo L’oltraggio della sposa?
Com’è nato il romanzo L’oltraggio della sposa?
Nel giugno del 2014 fui ospitato da miei vecchi compagni di scuola nel paese calabrese di Cassano allo Ionio, nel quale avevo vissuto dagli 8 ai 16 anni d’età. Mi avevano invitato per parlare della mia attività professionale di giornalista e della mia passione per la scrittura. Al termine di un affollato incontro pubblico un mio amico d’infanzia mi chiese se ero disponibile a raccontare una storia del paese. “Mettetemi nelle condizioni di scrivere e lo farò”, risposi. Detto, fatto! Mi diedero i primi documenti della storia che poi ho raccontato ne L’oltraggio della sposa.
Come si è andata evolvendo la sua stesura e la caratterizzazione dei personaggi?
Le prime letture mi appassionarono al punto che ebbi necessità di ulteriore documentazione e, grazie ad alcune amicizie romane, potei acquisirla. Proprio dalla necessità di caratterizzare meglio i personaggi nacque l’esigenza di scrivere un romanzo piuttosto che fare una ricostruzione documentale. Potevo disporre solo di atti giudiziari. Come fare per costruire le storie umane, prima e dopo il processo, di tanti personaggi così interessanti? Utilizzando i pochi elementi emersi dal processo fui in grado di costruire tanti percorsi di vita. A quel punto, però, Raffaella Saraceni divenne Adele Mori, Giovanni Fadda si trasformò in Giacomo Perra, Pietro Cardinali in Paolo Vescovi (in questo caso giocando facilmente sui nomi).
Sono tutti di fantasia o no: ad es. il giornalista Auletta e l’Avv. Deffenu?
Nicola Auletta e Giuliano Deffenu sono i miei personaggi ciclici. Sono presenti in tutti i miei romanzi precedenti, insieme con il capitano Gino Murgia. Tutti e tre nascono da riferimenti a persone reali. Nicola Auletta è la mia controfigura; l’avvocato Giuliano Deffenu è in realtà l’avvocato Carmelino Fenudi (vive a Cagliari ma è originario di Oliena) che mi mise a disposizione i documenti su cui scrissi il mio primo romanzo La borsa del colonnello; il capitano Gino Murgia – che ho dovuto escludere da L’Oltraggio della sposa perché non ho saputo trovargli un ruolo narrativo – corrisponde al generale, ora in pensione, Gilberto Murgia, originario di Urzulei che negli anni scorsi ha comandato i carabinieri della Legione Sardegna.
In Sardegna sono rimaste tracce della famiglia (Perra)Fadda e dei riflessi del processo che li coinvolse oltre un secolo fa?
Non so nulla della famiglia Fadda. So solo che un giorno un avvocato cagliaritano (mi pare che si chiami Fara Puggioni) mi ha proposto di andare a vedere nel suo studio un quadro che raffigura proprio Giovanni Fadda in divisa militare.
La figura della ricercatrice Simonetta Cerri ha solo un ruolo funzionale nella costruzione del romanzo, ovvero, per calare la storia della protagonista nella contemporaneità?
Simonetta Cerri è il mio alter ego. La sua creazione è nata dall’esigenza di non voler scrivere solo un romanzo storico, ma dalla volontà di trovare un personaggio che potesse attualizzare i tanti temi suggeriti da quella storia incredibile. A nessuno dei protagonisti avrei potuto affidare una valutazione approfondita, così ho deciso di creare Simonetta Cerri.
Quanto c’è del giornalista, quindi del suo dna professionale, nei suoi libri?
Per dieci anni (prima all’agenzia Ansa, poi alla Nuova Sardegna, infine, ma solo all’inizio, in Rai) mi sono occupato di cronaca nera e giudiziaria ed ho verificato di persona (in particolare con il terribile e storico ‘Caso Manuella’) quanto la frammentarietà delle cronache giornalistiche influisca sulla formazione di un giudizio da parte dell’opinione pubblica. Questa mia valutazione l’ho trasferita in tutti i miei libri, prima con la saggistica, poi con la narrativa.
Cosa l’ha condotta al passaggio dalla saggistica alla narrativa? In cosa si differenziano questi due generi letterari, qual è il suo preferito (e perché)?
La necessità di passare alla narrativa è derivata proprio dalla constatazione che c’è una parte della storia degli uomini e delle donne che non viene scritta nei documenti. È fatta di interiorità, di amori, odi, passioni. Perché rinunciare a quest’approccio di umanizzazione dei personaggi? Così ho sentito l’esigenza di utilizzare i documenti come ispirazione, non solo come dato incontestabile da riportare senza interpretazioni. È questo che mi fa preferire la narrativa alla saggistica, anche se ancora non riesco a rinunciare alle fonti documentali per scrivere le mie storie.
Dalla sua attività di scrittore pare emergere un impegno orientato al sociale, ai temi complessi delle vicende umane … Cosa intende comunicare o proporre ai suoi lettori?
Io credo nell’impegno civile di ognuno di noi. Ancor di più deve essere un obbligo morale per quanti, per professione, per dedizione, per interesse etico, vengono a contatto con storie che necessitano di approfondimenti e di riletture. Penso soprattutto alle vittime dei reati e ai loro familiari, quasi sempre ignorati da giornalisti, magistrati, penalisti. Penso a chi attende giustizia da decenni (come la protagonista del mio romanzo precedente Anime Rubate, sequestrata nel 1987 e che non ha mai visto un processo a carico dei banditi che la prelevarono e la tennero ostaggio per cinque mesi), penso ai tanti insabbiamenti come il tentativo di affossare qualunque seria inchiesta sull’abbattimento di un elicottero della Guardia di Finanza avvenuto nel mare di Feraxi (costa sud orientale sarda) nel lontano 1994, vicenda di cui mi sono occupato nel romanzo Codice libellula – La verità negata.
In merito al suo ultimo romanzo, L’oltraggio della sposa, quali sono i temi che le stanno a cuore e ha piacere di mettere in luce come riflessione più generale?
In giorni di violenza estrema contro le donne, come quelli nei quali vengono commessi i cosiddetti femminicidi, la mia riflessione si ferma sulla cultura che origina queste tragedie: l’idea di proprietà che l’uomo ha della donna. Idea costruita fin dall’infanzia, con un’educazione sbagliata, di cui anche alcune madri sono corresponsabili. In L’oltraggio della sposa le modalità del processo contro Raffaella-Adele sono il manifesto di quello che lo Stato risorgimentale italiano, formatosi solo 18 anni prima, pretendeva dalla donna nella società: fedeltà e ipocrisia. Il processo non fu una valutazione delle prove, fu un processo di condanna alla donna che credeva di avere il diritto a vivere la propria sessualità. Figurarsi poi una donna che preferiva un cavallerizzo di circo ad un militare eroe di guerra e in una Roma che solo nove anni prima aveva abbattuto lo Stato Temporale della Chiesa, ma non la sua rigida morale. Oggi lo si definirebbe un ‘processo politico’ del quale lo Stato cercò poi di lavarsi la coscienza concedendo la grazia, la grazia come atto di generosità, non come riconoscimento di un errore. È questo che mi ha molto colpito di questa storia: l’idea che il neonato Regno d’Italia utilizzò un’aula di tribunale – per di più realizzata in un ex convento – per dare un segnale diretto e violento sui comportamenti che le donne dovevano temere.
Secondo lei, qual è – se lo hanno – il ruolo dei media nell’influenzare l’opinione pubblica, nella creazione degli stereotipi, ovvero su cosa è “concesso”, nelle diverse epoche storiche, rispettivamente ad un uomo e ad una donna?
In tempi nei quali non ci sono più momenti di aggregazione sociale (parrocchie o sezioni di circoli di partito) i modelli comportamentali sono affidati prevalentemente alla televisione. Pensate a quante trasmissioni sanno parlare solo di come avere successo utilizzando il proprio corpo. È così che si creano gli stereotipi. Il merito professionale o culturale non vale quasi più nulla; quel che conta è come ci si presenta. Il messaggio è unico e identico per i ragazzi e le ragazze, quindi completamente diverso dal passato. Quanti sono culturalmente attrezzati per fare una valutazione critica di tutto ciò? E dove possono farlo se la scuola, che dovrebbe avere la funzione principe in questo campo, è ridotta ai minimi termini? Il problema è il futuro e quali sono gli ideali su cui stiamo costruendo le speranze e gli impegni delle generazioni più giovani. E infine. Siamo proprio sicuri che l’ipocrisia, il perbenismo, le curiose morbosità di entrare nelle vite degli altri, che hanno condizionato la vita e il processo di Raffaella-Adele siano definitivamente superati?