JUAN RULFO E SALVATORE NIFFOI (IL MESSICO E LA SARDEGNA): DUE MONDI APPARENTEMENTE LONTANI MA CON QUALCOSA IN COMUNE

ph: Salvatore Niffoi e Juan Rulfo


di Silvia Cardinale Pelizzari

Visto da lontano, allo scurire, Melagravida sembra un grappolo di steariche accese sopra una nuvola. I lampioni dondolano nelle strade come uomini appena impiccati. Culi di luce spaccati da una sottile lama di vento dicembrino. Dentro scatole di granito la gente si copre d’orbace e non riesce più a sognare. Nel buio ruvido si dorme un sogno espiatorio, in attesa del sole che all’alba spara sui tetti la sua farina ambrata dalla punta calcarea di monte Tumbacanes. (Salvatore Niffoi, Il lago dei sogni, Adelphi)

Si dice, di una lingua, che se è ricca è anche barocca, complessa, alta. E si dice, di una lingua, che se è essenziale è anche scarna, cesellata, secca. Ma succede che una lingua possa essere ricca ed essenziale insieme. Succede che queste due parole riescano a non essere distanti, ma due lati di una stessa materia, che le mescola senza paura. Non ho mai messo piede in Sardegna. Durante la mia adolescenza, quando pensavo a quella terra, pensavo alle spiagge cristalline, alle estati lussuose delle mie amiche, a un mondo patinato senza cellulite. Poi i libri sono entrati nella mia vita, e hanno fatto la loro prima piccola magia: hanno cambiato l’immagine che avevo in mente pensando a un luogo, hanno sradicato tutto quello che le riviste di gossip e le commedie italiane estive avevano sedimentato negli anni e hanno messo al loro posto una cartolina ben precisa, dove in Sardegna non si vede il mare ma la terra, una natura selvaggia e semi-abbandonata, dove la polvere sale dalle strade sterrate e dalle case non esce quasi parola.
Questa piccola magia è stata fatta dai libri di Salvatore Satta e di Grazia Deledda. È stata fatta Michela Murgia, da Marcello Fois e soprattutto da Salvatore Niffoi.

La prima persona a parlarmi di Niffoi è stata Chiara Gamberale l’estate di undici anni fa. Chiara mi aveva solo detto: Leggi La leggenda di Redenta Tiria. Non lo feci. Ero molto giovane e credevo scioccamente che solo alcuni libri potessero parlarmi. Anni dopo, Jacopo Cirillo, alla mia richiesta di consiglio di un libro breve disse senza dubbi nella voce e sulla faccia La vedova scalza. Ero corsa al Libraccio e l’avevo trovato a 4 euro e 90. L’avevo portato a casa, ne avevo letto una pagina e mezza; l’avevo chiuso dicendo Non è roba per me. Diversi anni e molte letture più tardi, questo libro mi è di nuovo cascato tra le mani come un imprevisto, e da allora tutto è cambiato. Ho scoperto, come prima cosa, che il ricco e l’essenziale possono convivere insieme, che le storie possono essere senza tempo.

Salvatore Niffoi ha 67 anni e vive a Orani, un piccolo centro della Barbagia non lontano da Nuoro. Fatto salvo per gli anni degli studi, passati a Roma, ha sempre vissuto in Sardegna, la sua terra, dove è stato insegnante in una scuola media, prima di diventare scrittore a tempo pieno. Non lascia spesso il suo paese. Dopo qualche giorno lontano dalla sua Barbagia, dice, iniziano a bruciargli le piante dei piedi. La sua terra lo chiama di nuovo a sé. La lingua di Salvatore Niffoi è ricca e essenziale insieme. Il suo è un lessico familiare che mescola l’italiano più alto con la durezza e la semplicità del sardo, non sempre di facile comprensione. In un’intervista, a chi gli chiedeva se non fosse meglio “semplificare” la lingua per permettere a tutti di capire, ha dichiarato che non crede alla lingua svelata. “La lingua è femmina, e come tale deve conservare una parte del suo mistero, altrimenti perde la sua magia e la sua musica”. E di musica nel sardo ce n’è molta, così come c’è il ritmo cadenzato, cantilenato. Le sue sono storie barbaricine, piene di tradizioni, superstizioni, povertà e leggende, molte sofferenze e altrettanta felicità. Perché i sardi, dice, vivono le emozioni senza mezze misure. “O grandi felicità, o grandi sofferenze. Non conosciamo la malinconia”.

Inizia così La vedova scalza, il libro che gli è valso il Campiello undici anni fa. La storia è quella di Mintoia Savuccu e il suo amore per Micheddu. Quando glielo portano a casa “spopolato e smembrato a colpi di scure come un maiale”, quello che rimane è la rabbia, che non conosce barriere sociali. Emigrata in Sudamerica, scrive questo racconto destinato alla nipote al paese. Scopriamo una terra arcaica e severa, quella della Barbagia tra le due guerre. E conosciamo Mintoia e Micheddu, il loro amore adolescenziale ma destinato a durare. Un amore forte, che resisterà anche quando Micheddu si darà alla macchia; anche quando, con tutte le resistenze che potrà schierare, capirà che il suo uomo ha avuto un figlio da un’altra. La sua storia si trasformerà in una storia di vendetta e di rivalsa. La sua vera rivalsa sono però le lettere, la cultura: l’aver imparato a leggere da bambina le permette la fuga, la sopravvivenza, la possibilità di non scomparire, lasciando una traccia di sé. La storie si tramanderà, di generazione in generazione

Si dice che Salvatore Niffoi viva tutto l’anno con l’albero di Natale fatto, e che lo rinverdi con muschi e licheni. Si dice che quando nel 2004 Roberto Calasso lo contattò per proporgli di pubblicare con Adelphi La leggenda di Redenta Tiria (che un editore sardo aveva rifiutato) fosse Natale, e l’albero fosse addobbato nella casa di Orani. Da allora sembra che non sia più stato disfatto. Ma forse è solo una leggenda, simile a quelle che ravvivano le pagine dei suoi romanzi.

– E così lei è suo figlio?

– Di chi? – risposi.

– Di Doloritas.

– Sì, ma come lo sa?

– Lei mi ha avvertito che sarebbe venuto. Proprio oggi. Che sarebbe arrivato oggi.

– Chi? Mia madre?

– Sì, lei.

(…)

– Qui non c’è niente dove coricarsi, – le dissi.

– Non si preoccupi per questo. Lei deve essere stanco e il sonno è un buon materasso per la stanchezza.

Già domani le preparerò il letto. Come lei sa, non è facile preparare tutto in quattro e quattr’otto. Per questo bisogna essere preavvisati, e sua madre mi ha avvisato solo adesso.

– Mia madre, – dissi, – mia madre è morta.

– Allora era per questo che sentivo la sua voce così flebile, come se avesse dovuto attraversare una grande

distanza per arrivare fin qui. Ora capisco. E da quanto tempo è morta?

– Già sette giorni.

– Poverina. (Juan Rulfo, Pedro Páramo, Einaudi)

Juan Rulfo è stato uno scrittore messicano nato nel 1918 che ha probabilmente avuto, negli anni, più studi critici che lettori. Nella sua vita ha scritto, a distanza di pochi anni, due libri di narrativa e una sceneggiatura per il cinema. Poche centinaia di pagine, prima di decidere che era l’ora del silenzio: non avrebbe mai più scritto nulla con l’intento di pubblicare. Pedro Páramo è un romanzo breve pubblicato nel 1953, un piccolo gioiello, mentre La pianura in fiamme, la sua raccolta di racconti, è uscita nel 1955. Il Gallo d’oro, una sceneggiatura trasformata in un racconto, è stato ripubblicato lo scorso anno da Einaudi, che completa quindi la sua opera. Rulfo era un uomo solitario, schivo, che non amava la mondanità. Leggenda vuole che trovasse i nomi dei suoi personaggi leggendo le lapidi dei cimiteri di Jalisco, lo stato messicano in cui era nato. E non è credo un caso se nelle sue storie i morti hanno la stessa presenza scenica dei vivi, e addirittura riescono a confondere le carte, mostrandoci che vita e morte possono essere molto simili, o quantomeno stare nella stessa inquadratura. È cresciuto in un Messico tagliato a metà dalla fame e dalla rivoluzione dei Cristeros. Rivoluzione che lo rese orfano di padre e che lo iniziò alla vita dura. Quando a nove anni perde anche la madre, il suo destino è l’orfanotrofio. Ma c’è un riscatto, nella sua vita, e il grilletto del riscatto sono di nuovo le Lettere. Studia per sovvertire un destino già scritto, lavora come funzionario, come rappresentante di pneumatici, poi diventa direttore degli studi indigeni e infine fonda e dirige una rivista letteraria che gli consegna le chiavi per essere giudicato un intellettuale. Garcia Marquez lo amava e stimava, lo reputava un maestro; arrivò a dire che la lettura di Pedro Páramo gli mostrò un cammino nuovo, in un periodo in cui la sua scrittura era ferma. Disse: “Quella notte non riuscii a dormire fino a che non ebbi terminato una seconda lettura; mai, dopo la notte tremenda in cui avevo letto La metamorfosi di Kafka, in un lugubre pensionato studentesco di Bogotà dieci anni prima, avevo conosciuto una simile commozione”.

A chi chi gli chiedeva perché avesse smesso di scrivere, Rulfo rispondeva che era morto lo zio Celerino, quello che gli raccontava le storie. La pianura in fiamme, era in effetti davvero sul punto di chiamarsi “I racconti dello zio Celerino”. Ci ha regalato quello che poteva e poi si è tolto di scena. È riuscito però, con poche centinaia di pagine, a concludere la sua poetica e l’epica del suo popolo, fatto di sudore, rivoluzioni, contadini e fantasmi. Ce ne sono molti, nei suoi scritti, e ci parlano. Come ci sono le superstizioni, le tradizioni, le leggende che si tramandano e la povertà. Molti lo hanno definito uno dei padri del realismo magico, ma è una definizione parziale, claudicante. Ci sono certo molti temi cari a quel filone tipicamente sudamericano, ci sono descrizioni che sembrano uscire da quadri di Frida Khalo (o viceversa) ma manca quello stile barocco, mancano le note stucchevoli. Nessun palpito del cuore che si trasforma in uccello, direbbe Claudia Durastanti. Nessuna lacrima che si trasforma in fiore. Al loro posto ci sono il sudore e la polvere che sale dalla terra, ci sono la povertà, la miseria, le scelte difficili, raccontate con uno stile estremamente pulito, asciutto, quasi Carveriano. Con quello stile fa parlare i suoi compagni, i contadini a cui hanno regalato una terra dalla quale si possono ricavare solo sassi, fa parlare un popolo intero e gli abitanti di Comala, il paese definito “la bocca dell’inferno” e il cui nome deriva da Comal, il recipiente di argilla che messo sul fuoco serviva per cucinare. È da quell’inferno che esce il mondo contadino di cui ci parla. Nessuna emozione, nessun sentimentalismo. Rulfo taglia tutto il superfluo, tiene solo le parole che servono, lascia solo l’eco delle cose che andavano dette e delle cose che sono state fatte. E torna sopra quelle impronte, a quelle tristezze, a quelle ingiustizie. Imperturbabile e apparentemente freddo, in realtà semplicemente essenziale. Un mondo in cui essere vivi o essere morti non fa differenza.

Ho conosciuto Juan Rulfo grazie ad Andrea Meregalli, un ragazzo che scrive su Finzioni e che ne sa a pacchi di letteratura sudamericana, e grazie a Goffredo Fofi. Quando ho visto Fofi per la prima (e unica) volta, a Ivrea la scorsa primavera – raccontava delle sue letture e dei libri che ama insieme a Paolo Cognetti, Alessandro Leogrande e Alessio Torino -, gli sono andata incontro e l’ho ringraziato. Ha fatto il gesto di darmi il bastone in testa, e solo allora gli ho spiegato perché lo stavo ringraziando. “Maestro, grazie a Lei ho scoperto Juan Rulfo e la mia vita di lettrice è cambiata”. Mi ha guardata e ha sorriso, ha iniziato a parlarmi come se fossi una sua nipote che gli chiede una storia lontana nel tempo, poi ha detto: “Lo sa, una volta l’ho incontrato. Quando gli ho chiesto quale fosse il film che avesse rappresentato meglio il Messico mi ha risposto: Es una película italiana”. Mi ha parlato di Rulfo, di quello che significava per lui. Ho ricominciato a vedere la terra arida, i contadini, i fantasmi e la vita semplice, le donne con il velo sulla testa che pregano insieme, il latrare dei cani al vento, a una terra che si perde a vista d’occhio. Sapevo che stava parlando di Sergio Leone. Sapevo che stava parlando di Giù la testa. Eppure ho inclinato la testa e ho pensato a Orani, un piccolo paese della Barbagia non lontano da Nuoro, e a un uomo il cui padre era abile con le pietre e che un giorno portò il figlio tra i minatori, per mostrargli come sarebbe stata la sua vita se non avesse studiato. Quell’uomo ha imparato tanto dalla terra e poi ha deciso di fare lo scrittore. La sua rivalsa sono state le Lettere.

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