FRANCESCA MULAS AL CIRCOLO SOCIALE CULTURALE SARDO DI MILANO PER LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO “SARDEGNA NURAGICA”

ph: Francesca Mulas


di Sergio Portas

Mimose come tradizione vuole per l’8 marzo, e tutte in onore di Francesca Mulas che il Circolo sardo di Milano ha voluto ( dolcemente) costringere in una narrazione di taglio spiccatamente femminile del suo libro che tratta della Sardegna nuragica, ma che titola anche di società, religione, vita quotidiana (arcadia editore 2015). Ma Francesca fa bel viso a cattivo gioco ( non le è difficile del resto: tutta nera d’occhi e di capelli, nerovestita, come spalanca il sorriso, complice il rossetto a tinte forti, i denti sono di quelli che “più bianchi non si può”). E’ ragazza del ’76 e di mestiere sarebbe archeologa, che è quello per cui  ha studiato all’università della sua Cagliari, ma come ci diciamo prima che la conferenza cominci, gli archeologi sardi che portano a casa la pagnotta scavando in giro per l’isola si possono contare sulle dita di una mano, ed allora ci prova col mestiere altrettanto poco remunerativo del giornalista ( la si trova sul bimestrale Sardinia Post Magazine di Giovanni Maria Bellu, e su www.sardiniapostmagazine.it) e di scrittrice. Questo suo secondo libro (il primo tratta del viaggio in Sardegna di tre scrittori di fine ottocento: Scarfoglio, Pascarella e D’Annunzio) ha il pregio di voler disquisire con un linguaggio non da specialisti di tematiche tanto affascinanti quanto dirimenti (anche in seno alla cosiddetta società scientifica degli addetti ai lavori). Fermo restando che le popolazioni che abitarono la Sardegna tra diciamo il 1600-1330 (bronzo medio e Protonuragico) e l’arrivo devastante di quei satanassi dei Romani nel 238 a.C. (ferro II-Nuragico IV) non lasciarono dietro di sé nulla di scritto, il mestiere dell’archeologo consiste nel far parlare le fonti che mano a mano la terra, magari interrogata a strati, si degna di restituire alla curiosità dei contemporanei. In quel di Sardegna tra l’altro, il più delle volte non c’era bisogno di scavare in profondità, gli abitanti di quei 1400 anni che vi dicevo (millequattrocento anni!!) si erano lasciati dietro qualcosa come diecimila torri, costruite con poderosi blocchi di pietre che le facevano svettare anche per decine e decine di metri (una ogni 3,5 chilometri quadrati) caratterizzando il paesaggio di un’isola tutta unita da una cultura comune: l’isola dei nuraghi, la terra dei Nuragici. Dice Francesca che ne sono a tutt’oggi censiti (cioè di loro si sa indirizzo certo) circa 7.000 , di cui scavati appena il 5%. Chiudo gli occhi e mi immagino la Sardegna del futuro, quella che si impegna a far conoscere al mondo le bellezze che la caratterizzano, le valorizza per farne reddito, usa i laureati delle sue università come “ciceroni dell’arte”, uno per ogni nuraghe censito: cinquemila posti di lavoro per cinquemila neolaureati in archeologia nuragica. Oggi ci si muove in ordine sparso, mai che ci siano fondi sufficienti a progetti di lungo periodo, tocca incontrare Francesca Mulas a Milano per veder proiettato il viso di una donna sarda vissuta 4.000 anni fa. Cinquant’anni fa in una grotta inesplorata nella valle del Lanaittu, tra Oliena e Dorgali, il ritrovamento di uno scheletro che giaceva sul fianco sinistro, su poche ramaglie, accanto una ciotola, un tegame in terracotta e una macina di granito. Un corredo funerario tipicamente femminile. Nella parte destra del cranio un foro rotondo completamente ricalcificato, segno che la donna (come rilevarono gli antropologi) aveva subito un’operazione neurochirurgica per curare chissà quale malattia, ed era sopravvissuta all’intervento. La chiamarono Sisaia ( sei volte nonna) aveva circa trent’anni al momento del decesso, 1,50 di altezza. Per un migliaio d’anni l’altezza media delle donne sarde non varierà di molto, per gli uomini era di 1,62 all’arrivo dei romani. Ebbene la dottoressa (in lettere e filosofia, indirizzo psico-socio-antropologico) Ornella Becheroni, classe ’53, di Carbonia, non a caso laureata con una tesi sulle operaie di miniera del Sulcis-Iglesiente, ne ha “ricostruito” il volto e ne ha fatto un libro: “Il volto di Sisaia”; Carlo Delfino editore. Colorito olivastro, nera di capelli e d’occhi. La moderna “diagnostica per immagini” applicata alla paleopatologia della Becheroni ci fa rivedere, per magia scientifica, questa nostra antenata della preistoria sarda, correva l’anno 1600 avanti Cristo. Il libro della Mulas è rigorosamente scientifico, i suoi autori di riferimento sono i  “vecchi”Lilliu e  Taramelli, e poi Maria Ausilia Fadda ( il culto delle acque sarde), Alberto Moravetti ( santa Cristina, Serra Orrios), Carlo Tronchetti ( i “giganti” di Mont ‘e Prama) per non citarne che alcuni, poco spazio quindi ai presunti ritrovamenti d’ossa gigantesche in quel di Pauli Arbarei, o all’opera dell’oristanese Gigi Sanna che ha codificato una “scrittura nuragica” sulla base del ritrovamento di tre tavolette, una sola delle quali in bronzo sarebbe sì antica, ma di età medievale non protosarda come lui pretende. Poco spazio agli “Shardana”, uno dei popoli del mare che ebbe l’ardire di sfidare l’Egitto dei Faraoni, poco spazio per la mitica Atlantide sarda di Sergio Frau che sposta sulla Sirte le altrettanto mitiche Colonne d’Ercole. Rimane nonostante ciò un’immensa storia durata per millenni che possiamo leggere nella ceramica, nei metalli, nelle pietre, nei luoghi di culto: i pozzi sacri e poi, dopo il novecento a.C in cui non ne furono più costruiti, i nuraghi stessi. Istantanee di questa vita sono i bronzetti votivi. Ritrovati più numerosi presso i luoghi di culto, espressione di una cultura che sapeva utilizzare la tecnica della “cera persa” per fondere la lega di rame e stagno. Rame che dapprima era totalmente sardo (Funtana Raminosa nel comune di Gadoni tra la barbagia di Belvì e quella di Seulo) e solo in seguito sarebbe arrivato da Cipro. Espressione della fase finale dell’età nuragica “conosciamo attualmente circa seicento esemplari di bronzetti nuragici, di cui 247 a figura umana e 146 navicelle anche se immaginiamo un numero ben più alto: molti nei decenni passati sono finiti nelle mani di tombaroli e trafficanti nel mercato nero dei reperti archeologici” (pag.63). E finiti quindi in tutti i musei del mondo. Uno dei soggetti più rappresentati è l’uomo in tutte le sue sfaccettature: l’uomo legato al sacro, alla vita e alle attività quotidiane, al mondo militare (Pag.64). Spesso, dice Francesca, le donne portano un’offerta: la statuina trovata vicino al nuraghe Cabu Abbas di Olbia, sul picco roccioso a 246 metri dal mare che domina il golfo, caratterizzato da un’ampia muraglia di recinzione di oltre 220 metri e larga fino a cinque, porta un’anfora sulla testa. Sullo schermo si susseguono un’offerente con una ciotola, con tunica e scialle, un’altra reggente sempre una ciotola, con un mantello regale, molto simile quest’ultima al capo tribù orante ritrovato nel villaggio-santuario di Abini, a Teti, descritto da Lilliu nella sua celebre “La civiltà dei sardi”. La “matriarca in preghiera” ritrovata a Nuragus, in provincia di Nuoro, presenta un ricco mantello. Quella di Seleni, a Lanusei, un collare tutto particolare. A santa Vittoria di Serri venne ritrovata quella rinominata “la grazia”, una madre che ha in grembo un figlio giovane adulto, con espressione, a dire di Lilliu, di grande sofferenza. Come quella denominata “la madre dell’ucciso” da “Sa Dom ‘es’Orku” di Urzulei, che può essere anche interpretata come una divinità femminile che accoglie i defunti. Comunque gli si interpreti questi “bronzetti”, e mettiamo pure che possano rappresentare personaggi della mitologia sarda, il fatto che molti di essi si riferiscano al genere femminile denota quanto doveva essere considerata la donna nella civiltà nuragica, essa stessa pontefice tra il mondo degli umani e quello degli dei. Nessuna rappresentazione femminile a Mont ‘e Prana, anche nelle dodici tombe a pozzetto ritrovate intatte,in cui il morto viene adagiato quasi fosse seduto, le ginocchia strette, sono quasi tutte ossa masc
hili.

I “giganti”in arenaria alti oltre due metri sono del resto guerrieri, arcieri, pugilatori, vestiti come nei bronzetti. Le donne erano tessitrici, lavoravano la ceramica, facevano il pane. Delle 40 “pintadere” , gli stampi con cui veniva guarnita la forma del pane, la gran parte sono state ritrovate in provincia di Oristano. Ma se volete vedere davvero come erano vestite le donne nuragiche, ci dice Francesca Mulas, sfogliate il libro di Angela Demontis: “Il popolo di bronzo” edizioni Condaghes 2014. L’artista cagliaritana è riuscita a guardare con altri occhi i bronzetti del museo archeologico di Cagliari e la sua sensibilità artistica ha colto particolari sino allora trascurati, sino alla singolarità delle armi dei guerrieri che talvolta indossavano guanti con cui tenevano strani bastoni da combattimento e da lancio, simili a grandi boomerang, che si usavano anche nell’Egitto di Tutankhamon, e ritrovati nel suo corredo funerario. La Demontis, dopo uno studio meticoloso e il supporto di esperti quali  l’archeologa Katiuscia Concas e la botanica Maria Stefania Sanna ha disegnato gli abiti dai “possibili colori”. Ce ne è una con un cappello a larga tesa, il copricapo è mutuato da un bronzetto conservato al museo archeologico nazionale di Copenaghen. Il mantello è, tra i vari strati dell’abito, il pezzo più prezioso e complesso il cui bordo è decorato da frange blu di lana. Doveva essere un personaggio importante. Il suo aspetto fiero e la mano sollevata come il Sardus Pater ritrovato vicino al tempio di Antas di Fluminimaggiore lascia intuire quanto le donne potessero svolgere ruoli centrali nella società nuragica. Tre mila e cinquecento anni fa.

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