di Marcello Atzeni
Cos’hanno Marat, Pacinotti e Nièpce in comune? Semplice: Cagliari. Teste pensanti che, in un modo o nell’altro, hanno bagnato i loro neuroni nel capoluogo sardo.
Jean Paul Marat, detto l’amico del popolo, è stato un grande rivoluzionario francese, anche se francese non era. La mente suprema della fratellanza d’oltralpe, era nato in Svizzera da padre cagliaritano. Proprio così. Giovanni Battista Mara ( ma alcuni propendono per i più sardofoni Marra o Marras), nacque in città verso il 1705. Dopo la vocazione, era un frate dell’Ordine dei Mercedari, smise il saio, non si sa bene per quale motivo e si rifugiò a Ginevra nel 1740. Qui abbracciò la fede calvinista, allora molto in “voga” e sposo la sedicenne Louise Cabrol, figlia di un parrucchiere e nipote di profughi ugonotti francesi. Qualche anno dopo il matrimonio, i coniugi si trasferirono a Boudry, nel cantone di Neuchatel. Giovanni lì prese la cittadinanza e il suo nome, ovviamente, cambiò e fu registrato con il nome di Jean Marat, secondo una corretta grafia francese. Il cantone di Neuchatel è francofono ,appunto. Inizialmente lavorò come disegnatore di indiane( tele sottilissime, con colori vivaci, in auge tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800), in un’azienda locale manifatturiera di tessuti. In seguito, verso il 1755, Jean o Giovanni ( o Giuanni),divenne insegnante di lingue a Neuchatel. I coniugi Marat ebbero sette figli, il secondo dei quali, nato nel 1743, fu chiamato Jean Paul. La vita di Marat è nota, ma vale la pena riassumerla in poche righe. Pochi però sanno che fu un medico. Di lui si ricorda soprattutto l’attività nella rivolution française, che appoggiò e sostenne sotto forma di scritti sopraffini. Deputato stimato e battagliero, nell’aprile del 1793 fu eletto presidente del circolo dei giacobini. Soffriva di una rarissima malattia della pelle. Per avere sollievo dei bruciori, faceva lunghi bagni in vasca. Qui scriveva le sue idee. E proprio qui trovò la morte, per mano di una girondina, Charlotte Corday, il 13 luglio 1793. E’ celeberrimo il quadro di David, che in seguito ritrasse anche Napoleone.
Oggi fotocamera; ieri macchina fotografica; ier l’altro dagherrotipo, ovvero il primo strumento per fotografare, chiamato così in onore di Louis Mandè Daguerre, erroneamente considerato come il suo inventore. In realtà la scoperta dovrebbe essere ascritta a un “tal” Joseph Nicèphore Nièpce. Il bello della vicenda è che tutto cominciò nel lontano 1796 , quando Joseph e il fratello Claude, militari, abitavano a Cagliari. Joseph, proprio in quegli anni ipotizzò di poter fissare l’immagine con un procedimento chimico. Quindi, i primi vagiti di un parto lungo e travagliato , risuonarono, o meglio, si focalizzarono nella mente di Joseph Nièpce, magari, “godendosi” un tramonto infuocato sulla Sella del diavolo e il Poetto, con lui che tutto estasiato da Monte Urpinu, sogna di rendere immortale la bellezza sconvolgente della natura. Dello straordinario scopritore d’oltralpe, si hanno notizie sarde anche nel 1797. Esiste infatti l’atto di battesimo di suo figlio Isidore. Lasciata la città del sole, Nièpce, torna nella sua Francia. Da subito inizia a lavorare alla sua idea, che fondamentalmente era questa:” ottenere delle lastre litografiche in modo facile ed economico e quindi pensa di sfruttare la camera oscura per impressionare una lastra da incisori e , nel 1826, ottiene la riproduzione su peltro di una stampa del cardinale Gorge D’Amboise.”( da “Storia della fotografia”). Successivamente, mettendo la camera oscura alla finestra del suo studio, dopo una posa di circa otto ore, riesce ad ottenere un’immagine visibile. Si tratta della fotografia più antica ancora oggi conservata. Quindi, in breve, il 4 dicembre 1829 Nièpce e Daguerre fondano una società, con un contratto di dieci anni, per dare sviluppo( è il caso di dirlo) alle loro idee. Ma nel 1833 Nièpce muore. Daguerre, non si scoraggia e continua a lavorare,seppure in solitudine, alacremente. Nel 1839,a Parigi, nel Boulevard du Temple fissa il primo soggetto umano: un signore che si fa servire da un lustrascarpe. Il 14 agosto dello stesso anno, ma a Londra, il procedimento di Daguerre viene brevettato. Ma è bello sognare e dire che senza Nièpce e uno sfolgorante tramonto di mezz’estate a Su Poettu, la fotografia sarebbe comparsa solo molti anni dopo.
Antonio Pacinotti, fisico ,superbo genio italico è notoriamente l’inventore della dinamo. Tale innovazione determinò, alla fine del 1800. di fatto, l’avvento della seconda rivoluzione industriale. La dinamo permise, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di avere energia elettrica in quantità illimitata. Chi è cagliaritano sa che in via Liguria, esiste un nobile liceo scientifico che porta il suo nome. Ma ,probabilmente, pochi sanno che l’inventore, a Cagliari, vi lavorò per parecchi anni. Infatti, dal 30 marzo 1873 sino al 31 dicembre del 1881, fu Professore di Fisica sperimentale e Direttore dell’associato Gabinetto di Fisica, dell’Università karalitana. Nel 1874, Antonio Pacinotti chiese, ed ottenne, dal Rettore Patrizio Gennari, di spostarsi a Pisa, per assistere il padre malato e allo stesso tempo aiutarlo nelle sue esercitazioni pratiche, in quanto anche lui, era docente di Fisica. In quell’anno Pacinotti lavorò a una nuova macchina magneto-elettrica a volano elettromagnetico che poi realizzò a Cagliari. Il 16 novembre 1875, tenne il discorso inaugurale dell’anno scolastico 1875-76 su “Cenni sull’istoria delle macchine motrici”.Idee ancora attuali a distanza di oltre 130 anni, nel campo delle risorse energetiche e ambientali. Se in un primo momento aveva scritto al rettore Gennari di sentirsi esiliato in Sardegna, quando gli offrirono la possibilità di tornare nella sua Pisa ci pensò su parecchio tempo. Ormai si era perfettamente ambientato a Cagliari e gli studi da scienziato gli diedero parecchie soddisfazioni. Nel capoluogo sardo aveva ottenuto un’officina ben attrezzata per i suoi molteplici esperimenti. Ma c’era di più. In quegli anni di “esilio”, conobbe la diciannovenne Maria Grazia Sequi-Salazar, che sposò in città il 29 aprile del 1882, ma che morì a Pisa il 25 febbraio del 1883. A Cagliari, nel museo di Fisica di Sardegna, esiste un tornio a pedale(risalente all’incirca al 1860), con il quale l’illustre scienziato costruiva le sue macchine straordinarie che hanno decretato ancora una volta il successo di una mente suprema italiana, per quasi due lustri insigne professore di Fisica nel famoso Palazzo delle Scienze di via Ospedale.