Capita che in una serata umida di dicembre si preferisca stare in casa e magari sfogliarsi qualche istruttivo libro d’arte, cosicché, scorrendo la bellissima monografia di Rossana Bossaglia su Francesco Ciusa, riconosci una sua opera che hai visto, per pura casualità, qualche giorno prima proprio ad Oristano e per trovarne conferma vai subito alla ricerca della didascalia, scoprendo che l’ubicazione del lavoro dello scultore nuorese è ignota[1].
Non tutti girano per i camposanti alla ricerca di epitaffi, ergo storie di persone od opere d’arte che le celebrano. Così, indotto dalla occasionale lettura di due interessantissimi seppur brevi articoli (con bel corredo fotografico), di Ivo Serafino Fenu e Luciana Delitala, sul cimitero di Oristano, ho deciso di fare una camminata all’ombra dei cipressi[2], in quel gran contenitore delle memorie civiche, delle memorie condivise della comunità residente nel capoluogo provinciale. A San Pietro, cimitero di Oristano, voluto in quel punto nel 1835 dall’allora arcivescovo della diocesi arborense mons. Giovanni Maria Bua[3]. Fuori le mura, in un luogo soleggiato e arieggiato, per ragioni igienico-sanitarie, secondo le disposizioni dell’editto di Saint Cloud, dal nome della città dove Napoleone lo emanò nel 1804[4].
Cogliere insieme le dimensioni della popolazione di un cimitero ovvero le diversità dei talenti personali dimostrati in vita e la comunanza di un destino è affascinante. I talenti realizzati negli affetti familiari, nei circoli d’amicizia, nelle attività di studio e professionali, nel servizio all’interesse generale, e quell’essere, alla fine, l’uno lo specchio dell’altro, per gli obblighi dei consuntivi che si presentano a tutti. Vari letterati hanno scritto di questo, forse li abbiamo incrociati sui libri di scuola, nelle lezioni dei professori. Ma poi, nella correntezza del nostro quotidiano, tutti abbiamo fatto l’esperienza di quanto un lutto possa essere bruciante.
Girare per cimiteri ha una enorme valenza pedagogica e credo che sotto il profilo delle testimonianze d’arte, di cui un cimitero costituisce inevitabilmente una grande vetrina, rappresenti una forma di arricchimento. È proprio in questo contesto, intendo nella ideale partecipazione alle vicende dei singoli o delle famiglie che hanno costruito la storia oggi affidata, per i suoi sviluppi, alla nuova generazione, che mi è sembrato giusto e anche fruttuoso compiere, più volte, il tragitto dei lunghi viali del cimitero oristanese, cogliere i nomi sulle lapidi e associarli alle memorie della comunità, soffermarmi davanti ai monumenti d’arte ed alle epigrafi di consacrazione di un buon nome.
Eccomi dunque davanti ad un bassorilievo stilizzato, firmato nientemento che da Francesco Ciusa, su di un colombario che accoglie, riunite l’una accanto all’altra, le lapidi con incisi o sovraimpressi i nomi di alcuni dei componenti della famiglia di Attilio Manconi e Luisa Passino, personalità che hanno segnato, per la loro parte, la vita municipale di Oristano nel primo Novecento e anche dopo. Perché allora l’ammirazione del lavoro dello scultore nuorese, cui fu affidata per diversi anni la direzione della Scuola d’arte applicata di Oristano, si è combinata al ricordo di quanto i Manconi, o i Manconi-Passino, hanno lasciato nel nostro capoluogo[5].
Le vedo queste tombe ravvicinate: in alto una lapide orizzontale, grande, marcata dall’opera di Ciusa di cui dirò poi, i nomi di tre fratelli: due, Luigi e Angelo, deceduti poco più che ventenni, negli anni ’30, il terzo – Salvatore – anziano invece e con un passato onorevole perfino di sindaco di Oristano, scomparso nel 1981. Sotto, segnalate dalle lapidi di minor misura, sono i genitori – appunto Attilio e Luisa (mancati rispettivamente nel 1955 e nel 1970) – tumulati in spazi condivisi con altri congiunti: il primo con la nuora Maria Siotto, vedova di Salvatore, morta nel 1998, la seconda invece con una nipotina, Giuseppina, figlia di Salvatore e Maria. E sembra portare commozione, per l’intrinseco valore simbolico, anche questa combinazione parentale, questa associazione dei protagonisti di una storia familiare dai molti risvolti pubblici.
Del dottor Attilio Manconi e di sua moglie Luisa Passino
Il nome di Attilio Manconi Dessì rimanda, per la parte materna, ai Parpaglia, in particolare a donna Filomena Parpaglia, sorella del senatore Salvatore Parpaglia, che fu per lunghi decenni deputato e poi senatore del Regno nonché, negli anni all’indomani dell’unità d’Italia, sindaco di Oristano (egli morì nel 1916, e sua sorella Filomena lo seguì l’anno successivo). Da Giuseppe Manconi Dessì e Filomena Parpaglia vennero, dopo il primogenito Attilio – medico –, l’avvocato Emilio, uno dei maggiori legali del foro di Oristano nel primo Novecento, e due sorelle: Doloretta (sposata con il dottor Enrico Solinas) e Serafina (moglie del dottor Romolo Nurra)[6].
Attilio, originario di Cuglieri, classe 1877, sposò Luisa Passino, di dodici anni più giovane, oristanese di radici nobiliari in quel di Bosa. La coppia ebbe sette figli: Salvatore (come detto futuro sindaco di Oristano), nato nel 1911, Luigi e Angelo, rispettivamente del 1913 e del 1915, e quattro femmine: Giuseppina, morta piccolina, Maria (maritatasi con Giustino Sanna), Ida ed Anna[7].
Ed eccomi quindi ad evocare la storia dei Manconi, o Manconi-Passino, riuniti nel plesso cimiteriale sul quale mi soffermo anche richiamato dalla scultura del Ciusa.
Attilio era medico odontoiatra. Studiò a Cagliari e si segnalò fra i più attivi nel circolo universitario negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento[8]. Laureatosi nel 1901 e specializzatosi in odontoiatria a Bologna, aprì lo studio di medico oltreché ad Oristano anche a Cagliari (nei pressi della via Garibaldi, sin dalla fine degli anni ’20) e fu per lunghi anni anche consigliere dell’Ordine professionale della provincia (allora comprensiva del Cagliaritano e dell’Oristanese, così come del Sulcis-Iglesiente e dell’Ogliastra, essendo ciascun circondario retto da un sottoprefetto). Medico ad Oristano fu altresì titolare di un consorzio di condotte di una vasta area rurale, da Morgongiori ad Usellus e Masullas, da Santa Giusta a Cabras, Nurachi, Riola ed Uras, da Mogoro a Marrubiu, Simaxis, Palmas Arborea fino a Sardara. Partecipò alla guerra di Libia nel 1911, con il grado di tenente medico, non mancando di ricevere un encomio solenne per il coraggioso comportamento tenuto in regione Messri, in una contingenza particolarmente pericolosa del conflitto. Nipote di massone – lo zio paterno Francesco aderì alla loggia macomerese “Eroica Macopsissa” negli anni ’70 dell’Ottocento – fu anch’egli iniziato nel 1906, nel tempio della loggia cagliaritana “Sigismondo Arquer”, ricevendo le promozioni ai gradi successivi nel 1907 e nel 1908, cui ancora seguirono quelli del Rito Scozzese. Intanto però fu uno dei partecipanti alla fondazione della loggia “Libertà e Lavoro” proprio in Oristano. E la fama che lo accompagnò – data anche la parentela con il senatore Parpaglia, il quale fu massone importante negli anni in cui ricoprì anche la carica di sindaco, fra la proclamazione dell’unità italiana e la presa di Roma – ebbe a marcare sempre questa sua stretta appartenenza al sodalizio. Si disse addirittura, secondo la testimonianza resa dal professor Peppetto Pau al saggista cagliaritano Gianfranco Murtas, che le riunioni si tenessero addirittura a casa sua, nello storico e centralissimo palazzo Parpaglia[9].
Alle elezioni comunali dell’estate 1914, Manconi fu eletto consigliere nel Municipio di Abbasanta e replicò l’esperienza dopo la grande guerra, non più però in quell’importante centro del Guilcer ma nel capoluogo stesso del circondario. Nell’autunno 1920 si candidò alle amministrative appunto di Oristano, in una lista liberale, e venne eletto raccogliendo ben 254 preferenze[10].
Con la moglie Luisa Passino condivise la passione per l’artigianato sardo, sia nelle sue produzioni di ebanisteria o metallotecnica, che in quelle tessili (arazzi, tappeti, ricami, lini, ecc.) o d’oggettistica ornamentale (dai gioielli alle ceramiche) e, mossi – lui e lei – anche da perfetta competenza in materia etnologica, ecco che gli acquisti dei pezzi originarono nell’arco di qualche anno un vero e proprio museo. Ospitato nella casa cagliaritana dei coniugi questo veniva aperto un giorno alla settimana alla visita degli amanti il genere. Ne furono interessati anche gli americani che avrebbero voluto portare oltre Oceano una testimonianza così riccamente illustrativa della manualità artigianale isolana. Gratificato da un vincolo di tutela ministeriale, la collezione sarebbe stata sostanzialmente donata nel 1936 al Comune di Cagliari, ed oggi costituisce una mostra permanente nell’antico Palazzo di Città, di lato alla cattedrale nel rione di Castello[11].
Di Luigi Manconi e dei suoi fratelli Angelo e Salvatore
Ma torniamo al nostro Francesco Ciusa, colui che concepì la “Madre dell’ucciso”, lavoro con cui salì agli onori delle cronache nazionali d’arte in occasione della biennale di Venezia del 1907. La lapide è dedicata al pilota Luigi Manconi Passino, deceduto il 6 giugno 1936, anno XV dell’Era Fascista. Appena un mese prima le truppe italiane erano entrate in Addis Abeba per fare del re d’Italia anche l’imperatore d’Etiopia. La sua vicenda meriterebbe certamente un approfondimento, data anche l’intitolazione di una via ad Oristano.
Il 6 giugno 1936 moriva nell’ospedale militare di Cagliari il sottotenente pilota Luigi – Gigi – Manconi Passino, 23 anni compiuti da qualche giorno soltanto, studente universitario iscritto a Medicina. Nei ranghi dell’aeronautica militare era conosciuto e ben voluto per la giovialità del carattere e la gentilezza della sua educazione. Di tanto generale apprezzamento furono prova i suoi funerali per le dimensioni del concorso, fra colleghi dell’arma e colleghi della facoltà, oltreché amici personali e della famiglia apposta scesi da Oristano a Cagliari. Prima di essere trasferita nella sua città natale dove oggi riposa, infatti, la sua salma fu accompagnata e accolta per qualche anno nel camposanto di San Michele del capoluogo[12].
L’anno successivo analoga sorte toccava al fratello Angelo, appena ventiduenne. Aspirante S. C. Manipolo FF.GG. C. (Fasci giovanili di combattimento, un corpo interno alla Milizia deliberato dal Gran Consiglio del fascismo nel 1930 come passaggio formativo o addestrativo fra servizio di leva e ranghi del regime), la sua vita fu anch’essa falciata da una malattia improvvisa cui nulla poterono le cure apprestategli nel nosocomio di Cagliari. E anche per lui, come per Gigi, i funerali furono dimostrazione della simpatia da cui era circondato insieme con la sua famiglia, al tempo residente, come già accennato, nel quartiere di Villanova del capoluogo[13].
Quasi a compensare tanta crudezza concentrata nel breve spazio di un anno, la sorte sarebbe stata invece generosa con Salvatore, il maggiore dei fratelli Manconi, medico odontoiatra e sindaco di Oristano per mille giorni, dal 1963 al 1966, succedendo a Manlio Odoni e dopo quattro consigliature che gli avevano offerto anche, attraverso la guida di un assessorato, la chance dell’amministrazione attiva. Militante democristiano fin dall’indomani della guerra, fu promotore della Pro Loco oristanese, a lungo dirigente della Polisportiva Tharros, sponsor dell’associazione Marinai d’Italia e della Lega Navale, nonché, nel 1963, tra i fondatori del Lions club della città. Alla sua passione civica si sarebbero dovuti i migliori sviluppi (anche per l’eco all’estero in chiave turistica) sia del Settembre oristanese che della Sartiglia[14].
Ciusa e la Scuola d’arte applicata, ad Oristano
Come pressoché avvenne per tutti gli artisti del tempo, i rapporti di Francesco Ciusa col regime furono abbastanza stretti, tanto che dalle istituzioni fasciste ricevette committenze per varie sculture e medaglie celebrative. Ma ebbe, come già accennato, un rapporto importante con la città di Oristano. Egli fu infatti chiamato nel 1925 a dirigere la Scuola d’arte applicata, la prima della Sardegna, voluta dal “fasciomoro” Paolo Pili e progettata dall’ingegner Davide Cova, che sarebbe divenuto sindaco di Oristano per volontà del CLN nel 1943.
Essa venne aperta subito dopo l’abbandono della manifattura di ceramiche Spica a Cagliari, operante dal 1914. Ciusa chiamò i migliori artisti sardi del tempo, da Giovanni Ciusa Romagna – suo nipote – a Filippo Figari, da Giuseppe Biasi a Carmelo Floris – che fu suo vice – fino a un giovane promettente Carlo Contini (a cui oggi è intitolato l’Istituto d’Arte). Va detto che la Scuola divenne presto un riferimento per chi avesse voluto imparare un mestiere e sviluppare “precise cognizioni di gusto”, con varie sezioni: decoratori, ebanisti, ceramisti, ferro battuto, cuoio istoriato[15].
Personalmente per Ciusa, il periodo oristanese sarebbe stato molto proficuo rispetto alle opere prodotte. Le più significative fra esse, ben conosciute oggi in diverse località isolane, sono il “Monumento ai caduti di Iglesias” e “L’anfora sarda”, con cui lo scultore nuorese partecipò per l’ultima volta alla Biennale, ma anche il “Monumento ai caduti di Cabras”, sfuggito al censimento e all’analisi di Rossana Bossaglia nell’opera biografica edita dalla Ilisso[16]. Scrive il pittore ed incisore Remo Branca che di Ciusa è stato, dopo che amico personale, il primo biografo: «Non so quanto o quante volte stetti davanti a quella divina serenità ellenica, non avevo coraggio di aprir bocca per non rompere l’incanto, anche perché pensavo a quelle congreghe cagliaritane che, considerando Ciusa ceramista in Oristano, luogo che Casteddu sempre disprezzava, o di cui voleva ignorare l’esistenza, lo giudicavano finito. Alla foce del Tirso era nata, simbolo della sete dei sardi, la più bella fontana dell’isola, dono profetico alla sua assetata Nuoro»[17].
Nella città di Eleonora Ciusa rimase fino al 1930. I suoi rapporti con Oristano erano però iniziati quasi vent’anni prima, quando egli venne iniziato nel 1911 nella loggia massonica “Libertà e Lavoro” – cui ho fatto prima riferimento accennando ad Attilio Manconi –, e proseguirono anche dopo il suo rientro a Cagliari. Va in particolare ricordato il medaglione celebrativo di Giulio Dolcetta – presidente della Società Bonifiche Sarde, esecutore della bonifica della piana di Arborea.
Mancano notizie precise circa l’impreziosimento artistico del sepolcro dei Manconi, di quello di Gigi in particolare. Ma certo viene spontaneo assegnarne l’ideazione al padre dottor Attilio. E la commissione a Francesco Ciusa ben potrebbe scaturire dalla comune frequentazione proprio nella loggia massonica oristanese ed irrobustita negli anni in cui il fascismo impedì ogni attività liberomuratoria e coincidenti però con la direzione, da parte di Ciusa, della Scuola d’arte[18].
Appare indubbio che la statuina e l’altorilievo che danno evidenza ed onore alla tomba di Gigi Manconi, nel plesso familiare del camposanto di San Pietro, costituiscano un dono dell’autore all’intera città d’Oristano. Eppure di essi non si parla da nessuna parte, se si eccettua il lavoro della Bossaglia che inquadra i manufatti come soggetto funerario.
L’utilità di una guida al cimitero di San Pietro
Negli ultimi tempi le guide per i sepolcri monumentali della Sardegna sono cresciute considerevolmente. Si pensi alle pubblicazioni – taluna anche di grande valore editoriale – uscite a Cagliari, Sassari, Nuoro, Iglesias, Quartu Sant’Elena, etc[19]. Oristano continua ad esserne sprovvista. Gli unici impegni iniziali in tal senso, come apripista, sono i saggi del 1997 di Ivo Serafino Fenu e Luciana Delitala[20] e la raccolta fotografica con alcuni documenti d’archivio dell’artista oristanese Antonio Marchi[21].
Data anche l’assenza di un prontuario lo stesso Marchi suggerisce a chi volesse approfondire l’argomento di rivolgersi all’archivio storico comunale della città per scrivere così parte della storia di Oristano, abbastanza esplorata nel periodo medioevale, ma ancora parzialmente ignota circa il recente passato. Oristano città incompiuta e capitale mancata. Eppure la città di Eleonora è sempre lì, a metà strada tra Cagliari e Sassari, a un’ora da Nuoro, senza però sapere o potere esprimere quello che la sua natura geografica dovrebbe dare ai suoi residenti e agli altri sardi che vedono nella vecchia Aristanis l’erede di quello che fu il più glorioso dei giudicati sardi.
Il competente giudizio di Mauro Dadea
Certo meriterebbe, anche questa opera cimiteriale di Francesco Ciusa, in un maggior quadro di quanto di lui sia la città che la provincia di Oristano posseggono, una migliore conoscenza e valorizzazione. E meglio ancora sarebbe se l’Amministrazione o la comunità degli studiosi della storia municipale, promuovessero uno studio organico di quanto di storico ed artistico è custodito nel grande recinto del cimitero civico.
A proposito della lapide di Francesco Ciusa mi è parso utile chiedere una descrizione e una spiegazione iconologica a Mauro Dadea.
Archeologo e critico d’arte, conferenziere e scrittore brillante, Dadea – per lunghi anni strettissimo collaboratore dell’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti (e pienamente coinvolto, nel 2004, anche nella operazione di restituzione alla cattedrale di Santa Giusta delle reliquie delle sante Giusta, Giustina ed Enedina) – è fra l’alto l’autore della più importante monografia riguardante proprio l’arte funeraria in Sardegna. Mi riferisco a Memoriae. Il Museo cimiteriale di Bonaria a Cagliari, da lui (con il fotografo Mario Lastretti) pubblicato in due volumi di grande formato, per i tipi della editrice Arcadia, nel 2011.
A Dadea sogliono rivolgersi scuole ed associazioni accompagnate nella visita del cimitero monumentale di Cagliari e proprio qui l’organizzazione di Monumenti Aperti si avvale della sua gradevolissima facondia per istruttive lezioni a un pubblico che, nella sua varietà, appare ogni anno sempre più interessato alla conoscenza dei gioielli d’arte che ha in casa.
Dal punto di vista strettamente figurativo, l’omaggio di Ciusa alla memoria del giovane sottufficiale oristanese consiste nell’estrema stilizzazione e armonica compenetrazione di vari elementi tipici dell’iconografia celebrativa militare. Sullo sfondo più scuro del grigio marmo bardiglio, che costituisce il vero e proprio chiusino del loculo, si staglia così un bassorilievo in marmo bianco statuario,improntato alle nitide geometrie dello stile Déco, che da un serto d’alloro aperto a forcella – in cui deve anche intuirsi il muso di un aereo -vede lo sviluppo verso destra del robusto piumaggio di una lunga ala, generata dalla resa plastica, quasi futurista, del turbinio di un’elica. Sulla sinistra, invece, la simmetria compositiva risulta spezzata – evidente allusione al cedimento strutturale dell’aeromobile che causò la morte del pilota – e significativamente presidiata da un piccolo bronzo a figura stante della Vittoria, vista come una giovane dal corpo flessuoso, i fianchi torniti e il tonico seno rotondo, rivestita di un impalpabile peplo talare, che con entrambe le mani eleva a braccia distese sopra il proprio capo una corona di trionfo.
L’elaborazione di questo piccolo ma significativo monumento rispecchia fedelmente le tematiche che Ciusa andava elaborando, per altri versi, già a partire dagli anni Venti. La grande ala bianca, infatti, richiama anzitutto lo studio del gruppo statuario Ali alla Patria, elaborato nel 1927 per un monumento in onore del generale Asclepia Gandolfo, poi mai posto in essere[22]. Nel piccolo bronzo della Vittoria va invece riconosciuto il bozzetto per l’analoga figura, scolpita in marmo, che suo malgrado Ciusa fu costretto a giustapporre al Monumento ai Caduti in guerra, commissionatogli nel 1923 dalla città di Iglesias e portato a termine nel 1928[23]; sebbene il bronzo oristanese, più che la turgida e quasi muscolare femminilità del marmo iglesiente, rimandi alla grazia morbidamente eterea di L’adolescente, figuretta in gesso realizzata nel 1925[24]. Un piccolo bronzo della Vittoria, apparentemente identico per figura e dimensioni a quello del monumento Manconi Passino, fu collocato da Ciusa anche in una lapide celebrativa della Brigata Sassari, nota su base fotografica e di cui al momento risulta sconosciuta la collocazione[25].
Lo stato di conservazione del monumento Manconi Passino risulta nel complesso buono. Si lamentano esclusivamente la sostituzione e conseguente banalizzazione dei bronzi di complemento della lapide (borchie e portalume) e la perdita dell’originaria lucidatura del marmo, parte integrante dell’espressività di un’opera prevalentemente basata sui trapassi geometrici.
[19]Sassari (P. M. Dettori, Il cimitero monumentale di Sassari, Comune di Sassari/Assessorato alal Cultura, s.d.); Nuoro (M. Lutzu, Sa ‘e Manca. Memoria e arte nel Cimitero di Nuoro, Madrike Nuoro, 2011); Iglesias (F. Cherchi, All’ombra de’ cipressi… Il cimitero monumentale di Iglesias, Cagliari, AIPSA edizioni, 2010); Quartu S.Elena (G. Carta e L. Contis, Minoranze Silenziose. Il cimitero monumentale di Quartu S.Elena, Cagliari, Palabanda Edizioni, 2014); Cagliari (A. Romagnino, L. Siddi, B. Badas, E. Borghi, M. A. Desogus, Bonaria. Il Cimitero Monumentale di Cagliari, Tam Tam edizioni, 2000; G. P. Caredda, Il camposanto cagliaritano di Bonaria. Un abbandono monumentale, Cagliari, Scuola Sarda Editrice, 2007; N. Castangia, Nel silenzio di Bonaria, a cura del Comune di Cagliari, Litotipografia Trudu, 2009; G. Antinori e gli studenti del liceo ginnasio Siotto Pintor di Cagliari, Il cimitero monumentale di Bonaria a Cagliari; ARS Longa, 2010; a tali opere diverse altre se ne potrebbero aggiungere, presenti come capitoli di libri di grande impegno sul capoluogo sardo, fra cui merita segnalare C. Figari, Cagliari raccontata. Guida alla riscoperta della città, Cagliari, EdiSar, 1990; Cenza Thermes, Cagliari amore mio, Cagliari 3 T, 1981; e sul piano prettamente letterario/poetico, B. Fanni, E subito fu… la quiete di Bonaria, s.d.; C. Thermes, Parlano i morti. Capriccio di primavera, Cagliari, ArtigianArte editrice, 2001; oltreché diversi contributi in “Almanacco di Cagliari“, fra cui, nella edizione del 1993, P. De Magistris, Museo all’aperto e luogo di pietà: nel cimitero di Bonaria un palpitante riassunto delle memorie cagliaritane. A tutto andrebbe naturalmente premesso il classico del can. G. Spano, Storia e necrologio del camposanto di Cagliari, Cagliari, 1869).
[25]Ibidem, fig. 138.
In riferimento alla Scuola d’Arte di Oristano intendo precisare che ad invitare i migliori artisti sardi del periodo fu inizialmente Davide Cova e non , viceversa, Francesco Ciusa, il quale ne accolse l’invito di prendere l’incarico di direttore dopo che Davide Cova l’ebbe realizzata, alla fine del 1923, avendo chiuso a Cagliari la fabbrica S.P.I.C.A.
Concepita inizialmente come scuola privata, era nell’idea di Davide Cova una scuola d’ arte e artigianato con diversi insegnamenti da impartire agli allievi, dall’istruzione generale, alla produzione di manufatti e di opere artistiche. Infatti, in considerazione della sua funzione, la scuola d’ arte applicata dava largo spazio anche agli artigiani e intendeva proporsi nel territorio con le sue realizzazioni, per promuovere anche il lavoro…
Nel 1925 fu istituzionalizzata da Paolo Pili.
Lo scultore Francesco Ciusa mantenne il ruolo di direttore, il pittore Carmelo Floris e l’ing. arch.Davide Cova quello di insegnanti.
Gli altri artisti da questo momento in poi furono presenti raramente. Per esempio Filippo Figari nel 1925 non andò all’inaugurazione e così altri.