di Sergio Portas
Carmen Salis se ne viene da Cagliari al 116/a di Porta Romana (sì quella dove: ”…ci son le ragazzine che te la danno…”) a casa di “Aiutiamoli”, un’associazione che nasce nel1989 da famigliari di malati psichici, per affrontare il disagio, la sofferenza e la solitudine di chi soffre, e delle loro famiglie. Porta con sé il libro che ha scritto e di cui vuole parlare: “Gianna, Lei era mia sorella”, amicolibro editore, consapevole che stasera si troverà di fronte ad un uditorio molto particolare, molti di quelli che sono qui hanno attraversato situazioni simili a quelle che lei descrive, molti di loro sono solo una trentina d’anni fa sarebbero stati etichettati come “matti”. E Gianna, la sorella maggiore di Carmen, otto anni di differenza, di conseguenza per tutti sarebbe stata “sa macca”. Perché i “sani” di mente hanno dimostrato di poter essere molto crudeli con questi loro sfortunati fratelli, viene da pensare che l’ombra che emana dalla malattia mentale li faccia dubitare che il confine che li separa da loro non sia poi così invalicabile. Ieri era giorno della memoria, della soluzione finale del “problema ebraico europeo” che il Reich tedesco mise in atto si è molto detto e dibattuto, in sottordine sono passati gli orrori che hanno dovuto subire altre categorie di persone, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, tutti anche loro passati per i campi di concentramento nazisti e per le camera a gas. Un benemerito libro del giornalista e storico Gotz Aly: “Zavorre” (Einaudi) tenta di far luce sulle duecentomila persone indifese, nonostante fossero quasi tutte di “purissima razza ariana”, che furono ammazzate grazie alle leggi di Hitler nella totale acquiescenza della comunità. C’è voluta tutta una connivenza delle famiglie perché venissero adottate queste politiche che le liberavano di un peso, di questi esseri umani che avevano il solo torto di “essere segnati fin dalla nascita o di aver contratto nel tempo malattie che li costringono nei recinti di cliniche psichiatriche e ospedali pediatrici, di ospizi e di istituti assistenziali. Bambini disabili, adulti epilettici o con patologie mentali, anziani abbandonati. Vite indegne di essere vissute le definì la burocrazia del Terzo Reich nell’agosto del 1939 quando ne decise lo sterminio sulla base di un freddo calcolo di costi e benefici”. (Simonetta Fiori su “Repubblica” del 27 gennaio u.s.). Tempi difficili anche questi per l’umanità, sembra che siano tornati in auge demagoghi che promettono di avere ricette semplici ed efficaci per problemi complessi, epocali. Tra le cose che Trump ha promesso di fare al più presto ai suoi entusiasti elettori: cancellare l’Obamacare, il sistema che permette a più di quaranta milioni di poveri, che non possono permettersi un’assicurazione privata, di godere di un sistema gratuito di sanità nazionale. Che bel biglietto da visita! In Italia va meglio per fortuna, c’è stato un periodo, l’oramai mitico ’68 che ha dato la stura ad un’età dei diritti che parevano per sempre acquisiti (errore : bella fine che ha fatto l’art. 18 sui licenziamenti per ingiusta causa!) , e molto si è dibattuto in quegli anni come i diritti delle persone sfumassero, perdessero di peso, quando ci si trovasse ad esercitarli in istituti totalizzanti, la fabbrica in primo luogo, ma anche il carcere, il manicomio. Cosa fossero allora i manicomi nel nostro paese lo dicono decine di libri, uno per tutti: “Le libere donne di Magliano” che Mario Tobino, psichiatra, scrive nel 1953, Mondadori lo ripropone nel 2001, la storia autobiografica della sua esperienza nel manicomio del paesino vicino Lucca, una sorta di diario dei rapporti che ebbe con gli esclusi dalla società normale perché ritenuti “pazzi”. Sulle cosiddette istituzioni totali e sui meccanismi dell’esclusione e della violenza ha detto cose significative Erving Goffman ne suo “Asylums” (Einaudi 1968). E poi c’era tutto il filone dell’antipsichiatria dei Lang e dei Cooper che in verità non ebbe la fortuna che meritava, comunque sia a mio avviso nel calendario laico che dovrebbe caratterizzare la vita di ogni buon cittadino (il 25 aprile, il primo maggio ecc.) il 13 maggio è san Franco Basaglia, suo il grande merito se la 180 del 1978 venne promulgata. Quei manicomi lì in cui i degenti subivano restrizioni e privazioni che nulla avevano a che fare con il valore di sé ma venivano a fare parte intenzionale della cura, arrivando quasi a certificare il livello di degrado a cui era arrivato il malato, venivano chiusi per sempre. Che oggi non siano tutte rose e fiori lo dice qui anche Carmen Salis: “Che mia sorella fosse bipolare (psicosi maniaco depressiva caratterizzata da insolite oscillazioni del tono dell’umore n.d.r.) ce ne siamo accorti tardi. Io l’ho combattuta. Forse cercavo di travolgerla con la mia vitalità. Il problema in famiglia era come nascosto. Certo tutti si erano accorti che Gianna era “diversa”. Aveva tentato il suicidio, era strana. Per me era la coccola di mamma e la nemica giurata di papà. Non voleva studiare. Non voleva far nulla. Penso di aver preso coscienza veramente del suo stare male mentalmente dopo il primo ricovero coatto. E lì la prima delusione per una istituzione che sembra non volere dar voce ai famigliari del paziente, cosa che a me pare fondamentale. Era il 1990, lei sarebbe morta sette anni dopo per un trombo alla carotide (che c’entrasse anche il cocktail di farmaci che le toccava ingerire ogni giorno?). In vent’anni sono cambiate molte cose ma allora quando prese la decisione che io non dovessi più interferire nella sua malattia non ci fu nulla da fare. Il medico dell’igiene mentale minacciò di denunciarmi se avessi insistito nei miei propositi. Non dovevo disturbare il rapporto terapeutico. In casa le avevano dato le chiavi e anche l’economia domestica era sotto la sua direzione. Quando stava bene si occupa dei miei figli, è stata una zia fantastica”. Inutile sottolineare che ogni storia di malattia mentale è assolutamente unica, che il livello culturale della famiglia in cui questa si viene a manifestare conta parecchio, se non altro perché le manifestazioni, i sintomi del male, vengano trattati come tali e tempestivamente. Il poter accedere a una terapia mista, che vede cioè l’uso dei psicofarmaci alternato a una terapia psicoanalitica non troppo diluita nel tempo, dà maggiori garanzie a che la malattia rimanga sotto controllo. Nel retrocopertina del libro Carmen scrive: “I reparti di psichiatria sono luoghi di sofferenza che certo non potrebbero essere diversi. Ma ogni volta che varcavo quelle porte, non sentivo solo il dolore e la sofferenza che vi albergava dentro. Sentivo la paura, la commiserazione, l’impotenza che vi spadroneggiavano. Perché mi sembrava che per qualsiasi altra patologia restasse la speranza nella terapia, o in Dio. Per un malato di mente no. Questo pensavo.” Che se visti da vicino nessuno di noi sia veramente del tutto “normale” è cosa che oramai acclarata, questo dovrebbe aiutare le persone ad accogliere senza diffidenza preconcetta i comportamenti meno ortodossi dei malati psichici, che sono espressione di una sofferenza che talvolta non trova le parole per dirla. A parafrasare un altro fortunato libro su questo tema: Maria Cardinal: “Le parole per dirlo”, Bompiani editore, in cui l’autrice racconta la sua fortunata esperienza di analisi junghiana che le ha permesso un graduale recupero di sé, una nuova nascita nella consapevolezza di essere stata molto malata. Il pericolo più grave per un malato psichico è quello dell’isolamento, né la famiglia può a tutto sopperire, le associazioni tipo quella nella cui sede Carmen ci dice del suo libro: “AiutiAMOli” gestisce un centro diurno che nel corso degli anni è sempre più strutturato e qualificato, opera per l’autonomia della persona. I bisogni del malato e dei suoi familiari sono al centro dell’attenzione e con interventi mirati gestiti da psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, operatori e volontari. La formazione e la s
upervisione dei volontari è naturalmente vitale perché ogni cosa proceda nel migliore dei modi. E lasciatemi dire che in questo nostro vituperato paese il sistema di volontariato che regge molte di queste strutture è un vanto di cui andare fieri nell’universo mondo, ci fa onore. Le uscite sul territorio, i laboratori di canto, la redazione di un giornalino, le serate conviviali: cose da farsi insieme, da mischiarsi, da condividere, come questo “reading” di un libro che parla di una malata sarda, amante dei gatti, grande fumatrice, che mai avrebbe voluto abitare se non nella sua umida scomoda casa della vecchia Cagliari, e avere dei fidanzati anche, magari dei figli, ma la sfortuna volle che così non fosse. “Amava i cibi semplici come pane e pomodoro, minestrone, pastasciutta al sugo da mangiare rigorosamente accompagnata al pane” (pag.68). Legge altri pezzi Carmen e tutti ci commuoviamo chè riconosciamo nostre molte situazioni limite che la sua famiglia ha dovuto passare, quando babbo e mamma se ne sono andati nel meritato paradiso degli umili che molto hanno dovuto sopportare, è precipitato il mondo di Gianna, è rimasta sola. Ha dovuto lasciare la sua casa, la sua gatta. Aggiungere dolore al dolore. Nel mentre che si avveri la beatitudine dei poveri in spirito a cui il Galileo destina il regno dei cieli, facciamo sì che in codesta nostra terra il grado di civiltà di un popolo si misuri finalmente nei modi in cui vengono trattati gli sfortunati della vita, i malati psichici in primo luogo, la malattia mentale del resto deborda, viaggia insieme ai gommoni fatiscenti che solcano sovraccarichi di umanità il Mediterraneo nostro mare.
Grazie.
La civiltà di un popolo….mi spaventa questo popolo….che pensa… solo al proprio benessere..solo il bello… l’immagine… conta oggigiorno..mi spaventa il menefreghismo verso il prossimo ognuno pensa per se… rimpiango il periodo anni 70