TANTI SAPORI E COLORI DI SARDEGNA IN LOMBARDIA: DOPO EXPO, IL CONTENITORE FIERISTICO PIU’ SOSTANZIOSO DELLA CITTA’ DI MILANO


di Sergio Portas

Dice bene Bachisio Bandinu, bittese purosangue e grande intellettuale (nel senso più alto del termine, che ha dedicato anni e anni d’intelletto) dell’identità sarda: “…il messaggio che veicola un prodotto sardo di eccellenza deve avere un alto quoziente semantico e un alto quoziente estetico, deve essere bello e utile, e nell’ambito di nuove esigenze salutistiche può avere anche un alto valore etico in quanto prodotto della buona alimentazione e della salute. Questa è l’impresa culturale, cioè un nuovo modo di produrre e comunicare: la capacità artigiana che faceva dire al pastore “custu est su casu meu”, come attestazione identitaria di qualità, deve sposarsi con la consapevolezza di dedicare un prodotto-dono agli altri, a sos istranzos, ai consumatori. Casu meu e des sos atteros. La merce come dono dell’ospitalità. ( “La Nuova Sardegna 20 febbr. 2014, su un libro di Paolo Pisu “Gli ultimi pastori sardi?”).  Parole che mi risuonano all’orecchio mentre fendo la folla che la metropolitana milanese scarica verso “L’Artigiano in Fiera” a Rho-Pero, sarà che l’ingresso non si paga, sarà che dopo Expo il muoversi in massa fa tendenza, fatto sta che non ci sono state mai giornate di stanca, e comunque sia , quasi senza  che debba fare chissà che ricerche, al padiglione 2 mi trovo immerso tra nugoli di bandiere coi quattro mori inquartati, dove gli artigiani sardi espongono le loro mercanzie. Quanti sono? A sentire Giuliano Marongiu: 64 aziende di grande forza identitaria. Percorsi di vita che si incrociano i nostri, a sei anni lui nato a Varese (’66) da padre barbaricino e mamma bergamasca se ne torna ad Ovodda e ridiventa “sardo”, io vent’anni prima da Guspini seguivo babbo e mamma nel varesotto (Busto Arsizio per la precisione) e diventavo “italiano”. Giuliano, si può ben dire, è  un “pezzo da novanta” dello “star system” isolano, passando da “Sardegna uno” a “Sardegna canta” (con Ambra Pintore), si può davvero considerare ambasciatore della tradizione popolare sarda e, grazie al mezzo che fino a ieri (oggi c’è anche internet) decretava successo e popolarità: la televisione ovviamente, è conosciutissimo fin nel più sperduto paesetto della Sardegna tutta. Qui, per la regione Sardegna, fa da regista ad una strategia comunicativa che immerga, omogeneizzi, i venditori dei banchetti, con un’aurea di sardità che si possa percepire a priori: le launeddas di Roberto Tangianu e l’organetto di Peppino Bande da Sarule accompagnavano Cinzia Oggiano, una splendida ragazza di Valledoria dagli occhi che più verdi non si può, mentre muoveva passi di ballu-sardu, magnificamente vestita in costume da sposa gentilmente prestatole dalla signora Rita Cossu dell’omonima sartoria di Pabillonis, di cui molto dovrò ancora dire. Prima mi preme riferire anche della presenza del babbo di Roberto, Dante Taggianu, ogliastrino di Triei, classe ’47, nel 2007 ha chiuso la sua carriera militare con il grado di generale di brigata, appassionato quanto noto suonatore di launeddas (suo un saggio : “Launeddas il suono di una vita”, con molte ristampe) è stato anche caposervizio del commissariato della Brigata Sassari, e dal1989 i “Dimonios” sfilano sui Fori Imperiali accompagnati anche dal suono delle launeddas. Davanti al suo banchetto ha pezzi di canna che trasforma, davanti a un pubblico a bocca aperta, in strumento musicale dalle sonorità ancestrali, che parlano la lingua dei costruttori di torri megalitiche fiorite nella civiltà nuragica dell’isola che fu Ichnusa e Sandaliotis.  Rita Cossu da Pabillonis, sa bidda de is pingiadas, non soffre di complessi d’inferiorità isolana, sontuosamente vestita in costume, rose rosse sul fazzoletto e tra i ricami del corpetto, gonna plissettata viola, si rivolge al vostro cronista mischiando italiano e sardo campidanese, da padrona di casa che offre ospitalità tra manichini vestiti a festa, velluti d’ogni colore, pippias de zappus vestite alla sarda che paiono guardarti con occhi carichi d’ironia. Ha cominciato a cucire a cinque anni, dice di aver avuto una nonna dalle mani d’oro come le sue, morta dando alla luce la mamma di Rita, e lasciandole in eredità, diciamo noi “istruiti”, quei geni che si nascondono nei filari della doppia elica del DNA. Il babbo minatore a Montevecchio, dove se no? Alla miniera ci andava in bicicletta e quando le ruote erano sgonfie toccava arrivarci a piedi. Erano otto figli (una morta piccola), lei ha imparato l’arte da sola e parte di quello che riesce a fare è qui esposto, non solo abiti da sposa o da cerimonia ma anche di uso quotidiano, da uomo in velluto o fustagno, scialli ricamati, filigrane d’oro per altari di chiese campestri. Assisto incantato alla vestizione  che fa di Jasmine, non vi tragga il nome in inganno è di Villacidro, anche lei qui per la regione Sardegna a distribuire materiale turistico come Cinzia, è bella di suo in camicetta e calzoni neri, ma avreste dovuto vederla dopo che Rita le ha drappeggiato addosso un altro abito da sposa tipico di Pabillonis. Altro che vestizione di un Componidori di Sartiglia! L’effetto finale parla di un viso (non di una maschera levigata) incorniciato prima da una cuffia rosso fuoco, sopra cui  si pone un velo giallo di seta tinto con lo zafferano che va ad attorcigliarsi nel sottogola. Il vestito è in tinta marrone impreziosito da ricami neri, tre per parte, che scendono dalle spalle a mò di striscie, l’ampio scollo fa intravvedere i ricami della camicetta bianca. A Pabillonis da 15 anni c’è una casa museo del costume, merita di inserirla come tappa irrinunciabile di un vero giro delle bellezze sarde. Ambirebbe ad ingrandirlo e a farne una vera e propria scuola Rita Cossu, per ora tutto quello che sa lo insegna a Rebecca, sua figlia. Che segue le sue orme. Luisella Fenu di Uras di figlie ne ha due, una infermiera e l’altra che sogna la carriera militare, anche lei ha iniziato a maneggiare l’ago a otto anni, e ancora trova il piacere di farlo dopo quarantasei anni di lavoro, cucire e ricamare, sin quasi a rovinarsi la vista. Quasi la risposta di una grazia ricevuta la rivestizione della Madonna dell’incontro della chiesa di Pauli Arbarei, la cui fotografia è appesa tra neri serici scialli frangiati dove spiccano fiori dai mille colori. Sul tavolo ingombro di pizzi e corsetti policromi anche le bisaccine in orbace contenenti una spiga di grano: potenti portafortuna, dicono :”chi non ti manchi mai su pai”. Riconosciuta anche a livello europeo la maestria di questa sarta artigiana, un progetto Progresso della CEE le ha commissionato ben 95 costumi sardi, ha ricostruito e rifatto quelli di Curcuris, di Simala, di Gonnoscodina. Ne ha fatti, maschili e femminili, tre/quattordici anni, per i bambini di Guspini. Tratta broccati e sete preziose facendo di ogni capo un “unicum”, alla faccia delle cineserie stampate in miliardi di copie ognuna uguale all’altra. Atelier a Uras e, naturalmente, su internet. Su internet anche i coltelli sardi dei fratelli Piccioni di Guspini, trovatene, se potete, uno che sia uguale all’altro, loro mi dicono che quest’anno in fiera le cose hanno marciato per il verso giusto. Paolo Pusceddu della coltelleria l’Arburesa ha raccolto i nomi dei connazionali che hanno visitato il suo stand e tramite l’onnipotente Facebook farà un’estrazione che regalerà un tipico coltello a foglia larga con iscrizione appropriata (“Arbus nel mondo”, notate bene non nel medio Campidano o in Sardegna, nel mondo). E se pensate che il coltello sardo sia immutabile nel suo stile che prevede manici di muflone variamente intagliati visitate lo stand di “Knife Sardinia” che espone tutta una serie di coltelli con manici a colori pastello, davvero singolari. Su internet Pier Giacomo Saddi racconta il suo inizio “per fame e disperazione”, era ai domiciliari, ma anche detenuto nel carcere di Nuoro la sua iscrizione a “Scienze Politiche” e il 30 e lode all’esame di Economia Politica. Ogni cosa, ogni manufatto artigianale, è unico nel suo genere: B&B Arredamenti di Nule fa de
lle porte in legno (sono falegnami dal 1934) incorporandoci trame di tappeti che si fanno solo lì, con quei colori, con quei disegni. E poi impreziosite dal granito rosa di Nule, dalla trachite di Benetutti. Anna Segreto di Villasimius srotola i suoi tappeti “a pibionis” e non sai quali ti compreresti tanto sono belli e diversi l’un l’altro. E i gioielli della “Marroccu” di Villacidro? Loro sono vent’anni suonati che vengono alla fiera milanese, dei veri esperti nella competizione globale, cliccare per credere. Cliccare anche per Andrea cadoni e i suoi gioielli da Montevecchio. Per Cristina Foddi è “solo” l’ottavo anno di fiera. Fanno olio di gran qualità a Gonnosfanadiga, hanno puntato sulla “nera di Gonnos”, un’oliva che gode di proprietà assolutamente particolari (sono slow food 2016) e su un ciclo chiuso della lavorazione che non spreca alcunché, dai nocciolini venduti per legna da ardere alla sansa usata come concime negli uliveti. La siccità ha reso l’annata poco produttiva ma i clienti affezionati non si sono fatti spaventare dall’aumento dei prezzi che ne è derivato. Meno pioggia e anche meno miele, dice Giorgio Saba, anche lui gonnesu, zero produzione di millefoglie, bene il Timo dopo due anni, nelle pendici del Linas le api vanno spostate verso coltivazioni che prediligano letame piuttosto che trattamenti chimici e diserbanti. La sua Sardegna, il suo marchio, prefigura che la natura sia una fonte di salute, un’isola dolce: l’isola del miele.

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