GLI ITALIANI NEL MONDO E LE ISTITUZIONI PUBBLICHE: LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ALDO ALEDDA ALL’ASSOCIAZIONE “SEBASTIANO SATTA” DI VERONA

nella foto di Andrea Zonca, da sinistra: Salvatore Pau, Elisa Sodde e Aldo Aledda


di Annalisa Atzori

Sabato 4 febbraio Aldo Aledda è tornato dagli amici della “Sebastiano Satta” di Verona per presentare il suo ultimo libro. Moderatrice del dibattito Elisa Sodde, Aldo e Elisa sono rispettivamente presidente e vice-presidente del Centro Studi Cedise (Centro Europeo Diffusione Informazione Sardegna Estero).

Un ritorno atteso da parte del pubblico sardo-veneto dell’associazione scaligera come ha ricordato Salvatore Pau nel salutare e ringraziare l’autore, ormai socio storico della “Sebastiano Satta”.

Aledda  affronta il tema dell’emigrazione italiana: dal passato ad oggi, con un occhio di riguardo rispetto alle politiche adottate dalle istituzioni nei confronti di chi va e di chi torna. E alcuni spunti interessanti su cui varrebbe la pena di riflettere, soprattutto oggi che si parla tanto di “fuga di cervelli” e di giovani che lasciano l’Italia per lidi migliori.

Elisa Sodde entra nel vivo della presentazione e con dati statistici alla mano pone l’accentosu come dal 1876 al 1976 ben 27.000.000 di italiani abbiano lasciato il nostro Paese (il 54% degli stessi prima della Prima Guerra Mondiale, il 25% tra il 1945 e il 1976). Di tutti questi, circa un terzo sono poi rientrati nella Patria di origine. Gli Italiani sono emigrati verso USA, Francia, Svizzera, Argentina, Germania, Brasile, Canada, Benelux, Venezuela, Gran Bretagna (in quest’ordine). Ovunque, si è assistito alla nascita dei movimenti associazionistici,  per una maggior tutela assistenziale e di salute, per conservare i legami con la Patria e per mantenere la propria identità. Solamente il 50% degli emigranti si è però rivolto alle associazioni, il resto non lo ha fatto per diverse ragioni, vuoi perché era polemico nei confronti del Paese d’origine, vuoi perché ha cominciato ad identificarsi di più con la sua nuova Patria. Tra il 1888 e il 1919 si è incominciato a legiferare in materia di emigrazione, sono nate normative a tutela degli emigrati. Tra il 1922 e il 1945 durante l’epoca fascista c’è stata invece una chiusura delle frontiere. Dal 1948 fino agli anni ’60 sono ripresi i flussi migratori. La Costituzione (con l’art. 35) ha dato altre indicazioni in materia e c’è poi stata la nascita delle varie associazioni di emigrati all’estero.  Negli anni ’70 fino al 2000 circa si sono avute alcune Circolari Ministeriali e si sono tenute conferenze sull’emigrazione. Poi, dal 2000 ad oggi, pur avendo raggiunto il culmine della rappresentatività negli Statuti Regionali in tema di emigrazione, si è assistito a un inesorabile disimpegno dal punto di vista finanziario. Tagli ovunque, crisi economica, i fondi non ci sono più per nessuno.

Il cambiamento c’è stato negli anni anche da un punto di vista di definizione: prima erano “emigranti” oggi sono “italiani all’estero”. Sviluppano maggior senso di identità nazionale e non dimenticano le origini regionali, le proprie radici. La vicinanza agli emigrati è stata assicurata dalle Regioni, poi dalle Province, infine dai Comuni (o almeno da quelli più sensibili). L’appartenenza regionale rimane più sentita dalle classi sociali più basse, mentre l’identità nazionale è da sempre più viva nelle classi sociali più elevate.

Da dove vengono gli Italiani protagonisti dei vari flussi migratori? Esattamente in quest’ordine: dal Veneto (ben tre milioni!!!), dalla Campania, dalla Sicilia, dalla Lombardia, dal Piemonte, dal Friuli Venezia Giulia, dalla Calabria, infine dal resto delle Regioni d’Italia.

Un capitolo interessante è quello del sogno del rientro … Lo Stato Italiano vorrebbe attrarre i giovani connazionali che si sono formati e specializzati all’estero, ma è lento nell’adeguarsi alle esigenze di questi professionisti. In sostanza, gli italiani all’estero desiderano tornare in Patria, ma non vogliono di certo rinunciare allo stile di vita conquistato nel nuovo Paese. Per loro le prospettive in madre Patria sono inesistenti … solo il 20% degli intervistati si dice attualmente disposto a rientrare! I giovani italiani all’estero lanciano critiche che purtroppo restano inascoltate: in Italia c’è un’oggettiva difficoltà nel ricambio generazionale (i “vecchi” si tengono stretto il posto di lavoro), i giovani emigrati sentono una progressiva perdita di identificazione nelle varie associazioni (in quanto le stesse sono nate più di cinquant’anni or sono). Questo tema  è trattato nel capitolo “Questioni di affinità elettive”, dove si parla anche dello stereotipo del Paese d’origine, dal quale i giovani cercano di allontanarsi, della burocrazia e della mancanza di concretezza e programmazione che affligge le Istituzioni in materia di emigrazione. La scarsa motivazione che quindi i giovani si trovano ad avere se pensano di rientrare, le “ali tarpate” ai giovani professionisti che decidessero per il ritorno in Italia.

Come diceva Giovanni Sartori in un articolo di qualche anno fa, siamo in un caso di “imbottigliamento da manuale”. Elisa Sodde cita la metafora di Wittgenstein del labirinto, del pesce nella rete e della mosca nella bottiglia: da un labirinto, con un po’ di intelligenza si può trovare la soluzione per uscire; il pesce nella rete si dibatte perché vuole uscire, anche se non ci riesce; la mosca nella bottiglia ha la libertà vicina, il tappo è aperto, ma è troppo poco intelligente per saperlo e resta lì, in trappola … Ecco, forse siamo un po’ come le mosche nella bottiglia, non vediamo la soluzione eppure è così vicina …

Nel dibattito che segue, Aledda che è stato anche un uomo delle Istituzioni spiega al pubblico che si è spesso posto questa domanda:cosa possiamo fare in realtà? Ci spostiamo, perdiamo l’accento, perdiamo l’identità. E quanto è accettato “muoversi”? Non siamo del posto da più di quattro generazioni… in Veneto ad esempio siamo tutti in parte “incrociati”, da quando la società è diventata sedentaria chi si muove è visto con sospetto. Al giorno d’oggi, chi arriva in un nuovo Paese è visto come uno che  porta via il lavoro ai locali, ruba servizi nell’assistenza sanitaria, la sua cultura differente altera lo stile di vita del posto. E l’Italiano che dialoga con le Istituzioni del  Paese d’origine è visto come uno che critica (nel nuovo Paese si fa così, qui ancora non ci siete arrivati ecc),  dimostra a chi è rimasto che lui invece ha avuto successo (suscitando invidia). E quando si rapporta con il nuovo Paese che lo ha accolto invece dice che da lui è meglio, che la gente è più accogliente ecc.  Insomma, gli italiani emigrati diventano per così dire “bipolari”, vivono continuamente a cavallo di due mondi e ciò si rispecchia nelle Istituzioni. Se ci pensiamo bene in fondo, l’atteggiamento delle Istituzioni nei confronti degli italiani all’estero non è diverso da quello che le stesse Istituzioni hanno nei confronti di tutti gli italiani, anche di chi è residente nel Bel Paese. I problemi sono sempre quelli, in una sorta di processo di allontanamento dalla realtà. Altra considerazione da farsi, gli insulari (sardi e siciliani) sentono un’identità regionale più forte rispetto a chi arriva dal “continente”.  

L’Italia settentrionale “esportava” imprenditori che in un paio di generazioni diventavano classe dirigente all’estero (di qui la maggior identità nazionale rispetto a quella regionale). Dall’Italia meridionale partivano invece le classi più povere.  E in ogni caso, i giovani italiani all’estero non si identificano più nell’associazionismo costruito su sistemi datati, il mondo è cambiato profondamente. Altra questione: come si trasferisce l’attaccamento alla terra d’origine da una generazione all’altra? Il fenomeno degli jihadisti (ahimè… ) sta dimostrando come la seconda generazione sia in effetti più legata alla cultura d’origine di quanto non lo sia invece chi  è emigrato! I giovani che lasciano ora l’Italia lo fanno sostanzialmente per motivi lavorativi, nel nostro Paese non c’è meritocrazia, il lavoro c’è sì, ma solo per chi ha conoscenze (leggi “agganci”)  importanti da esibire.  In sala è presente anche Fernando Morando (presidente di “Veronesi nel Mondo”) che esprime i suoi complimenti per la discussione in corso e ricorda come i trentacinque circoli di veronesi nel mondo siano tutt’ora vivi perché ci credono, perché vogliono essere veronesi! Parlano la lingua del posto, ma nel cuore sono veronesi. Addirittura in Brasile è stata da poco riconosciuta come lingua il veneto…si chiama “talian” e si studia a scuola! A New York, nell’ottobre del 2016, hanno aperto un circolo di veronesi, con cinquanta persone iscritte tutte giovani. Aldo Aledda risponde che sarebbe bellissimo convocare qui gli italiani che vivono all’estero. Adesso addirittura abbiamo i pensionati italiani che si trasferiscono. Alcuni per  sei mesi all’anno, altri in modo definitivo. Riguardo ai giovani italiani che si sono formati all’estero (in ottime università) quanto sarebbero utili nel nostro Paese, se solo si ragionasse su questo e si trovasse qualche buona idea!

Un’altra persona in sala, donna di quarantatré anni, racconta la sua esperienza. Ha vissuto ventidue anni all’estero tra Gran Bretagna e Nigeria, veronese di origine sarda. Lei non ha voluto mantenere un granché di rapporti con la madre Patria finché si trovava all’estero, l’unico contatto era l’Ambasciata (o il Consolato, a seconda di dove si trovava). Ha riscontrato tra gli addetti gentilezza, accoglienza, ma tanta tanta burocrazia. Il nostro solito problema … E’ rientrata da soli due anni e mezzo ma già pensa di ripartire. Trova nel Bel Paese poche opportunità di studio, poca apertura mentale, a partire dal sistema educativo, che a suo parere dovrebbe essere meno nozionistico e più mirato a creare un’identità propria nello studente. Mancano qui l’accettazione della diversità e la ricerca di sinergie. E nei confronti delle Istituzioni italiane … si è sentita “invasa”, auspicherebbe ad un Governo meno intrusivo (possibile che dobbiamo comunicare il nostro Codice Fiscale anche quando facciamo la spesa al supermercato??).

Aldo Aledda rimarca il ruolo della diplomazia italiana all’estero: esiste una lunga tradizione di nobiltà che si occupa delle ambasciate…Gli ambasciatori italiani all’estero sono sempre provenienti dalle classi nobili, quindi si rimarca il forte distacco dalla realtà dei poveri emigrati. Dopo l’unità d’Italia infatti gli unici ad avere corpi diplomatici erano il Regno di Sardegna e il Regno di Sicilia. Aledda, nei suoi soggiorni all’estero, per poter meglio osservare il posto, le abitudini, si “traveste” da locale, per passare inosservato e mimetizzarsi, per vivere il posto nella sua pienezza. Cita un paragone che è ben esplicito: in Germania, uno straniero per avere i documenti attende circa due mesi. In Italia, invece, più o meno un anno! Durante il quale anno non può lavorare, fare formazione, non può studiare … insomma un anno sospeso nel limbo. Non si fa socializzazione prima di immettere nella nostra realtà persone che arrivano da altri Paesi, questo porta a razzismo, danneggia la convivenza, crea stereotipi. Gli stessi per i quali gli Italiani hanno tanto sofferto durante le grosse ondate di emigrazione in passato.

Le riflessioni dopo questo incontro con Aldo Aledda sono senz’altro d’obbligo.

Aldo Aledda (ph di Andrea Zonca)

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2 commenti

  1. È bello ri vedere aldo aledda.
    La cultura sportiva anche aspetta una tua ri presenza.
    Complimenti

  2. Brava Annalisa: articolo ricco ed esaustivo! Complimenti!! Un caro saluto e ancora grazie a tutti voi per la calorosa accoglienza.

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